11/8
2004

Niente da vedere [4]

Day 4: La tomba di Tito e quella della civiltà
Ultimo giorno a Belgrado. Consapevoli di essere riusciti a vedere ben poco, a cosa dedicare le ultime preziose ore prima della partenza? Tanto era cresciuta la curiosità attorno al mistero della tomba di Tito, che una volta scoperto dove si trovava abbiamo deciso di raggiungerla. Un ultimo passaggio al Plato a prendere un cd e poi saltiamo sul tram 41, in direzione della Casa dei Fiori; o meglio, in direzione opposta, come aveva tentato di spiegarci l’autista senza che noi riuscissimo a capire. Facciamo un giro di quaranta minuti per la periferia belgradese prima di venire infine fatti scendere dove desideravamo, perché ovviamente abbiamo preso il tram nella direzione sbagliata. Ehm... cosa che capitano, immagino. Questo ci ha permesso almeno di addentrarci un po’ nella città che a piedi non saremmo riusciti a raggiungere, una periferia desolata sotto il sole, una falce e martello (l’unica vista in città) tracciata con lo spray su un muro, la Miloša con le ambasciate ed i palazzi chirurgicamente distrutti, gli ultrà della Stella Rossa Belgrado che anche al mattino fanno più paura delle guardie private fuori dai casinò. Infine, avendo ormai perso ancora l’orientamento, veniamo fatti scendere e l’autista ci indica dove andare. La Casa dei Fiori, una scalinata, un brutto edificio da cui ammirare la città, un soldato di guardia all’ingresso per mantenere un’ultima facciata di istuzionalità (non è vero, abbiamo visto passare altri soldati dentro il parco, ci deve essere anche un edificio militare nascosto da qualche parte tra gli alberi e i fiori).

Il mausoleo di Tito, edificato forse per sopravvivere ai secoli, è una serra triste e vuota in mezzo alla quale troneggia quest’enorme sarcofago di marmo. Pochi visitatori, tutti turisti stranieri. Alla gentile custode chiediamo come mai, fosse così difficile trovare il posto.

"They don’t know." ci risponde, e si allontana.

Nella Casa dei Fiori è presente anche un malinconico museo etnografico, che vale la pena visitare per ammirare alcuni dei doni arrivati al maresciallo dai popoli della jugoslavia e da rappresentanti degli stati di mezzo mondo, costumi tradizionali, artigianato, armi antiche. Curiose relazioni, dal Giappone all’Etiopia, dall’Indonesia alla Libia. Avrete persino l’impressione che ci sia stato un tempo in cui sloveni, croati, bosniaci, macedoni e montenegrini fossero orgogliosi di essere jugoslavi.

Tornati in centro dopo mezzogiorno, ormai era forse tardi per raggiungere Zemun o Novi Beograd (sigh...) e ci siamo quindi fatti portare a Sveti Marko. Il tassista capisce dove vogliamo andare, ci chiede freddamente se siamo americani. Si scioglie nella consueta cordialità belgradese quando scopre che siamo italiani, ci fa passare ancora una volta per la Nemanjina spiegandoci in un inglese approssimativo gli edifici distrutti e quelli risparmiati, "this is owned by mafia, they didn’t bomb it" e così via. Ci scarica davanti a San Marco. Ciò che volevamo vedere, però, si trova dietro la chiesa ortodossa serba e dietro quella ortodossa russa, tra il grigio degli edifici dismessi e la bellezza del parco. Ancora una volta ci ha colpito alla bocca dello stomaco con la sua tragica banalità: la sede della televisione serba colpita con precisione dalle nostre bombe, e la lapide che ci schiaffeggia chiedendo perché quei sedici civili tra i venti ed i sessant’anni siano dovuti morire in quel modo. Restiamo fermi una mezz’ora, forse un’ora, senza parlare. Ciascuno insegue i propri pensieri, fino a quando una vecchietta arriva a spazzare le foglie ed i mozziconi, parla in serbo a noi o all’aria, indifferente. Risaliamo mesti il Bulevar Kralja Aleksandra, già della Rivoluzione, fino alla piazza dove ha sede il Parlamento Federale; da lì torniamo in stazione passando per l’ennesima volta accanto al Hotel Mosca. Abbiamo giusto il tempo di cenare e salire sull’autobus, non siamo neppure riusciti a salutare la burekkara, che come avrete capito è un altro dei motivi per cui vale la pena visitare Beograd... ;-)

Saliamo sull’autobus, che come tutti i mezzi pubblici che abbiamo trovato nel nostro viaggio parte con precisione rigorosa ed arriva in ritardo. A bordo siamo una ventina di persone, forse, ma quasi tutte scenderanno lungo la strada.

La chiesa di San MarcoIl parlamento federaleQuesto è importante, ma non ricordo cosa siaesempio dello sitle misto dell’architettura belgradese




Night: una tranquilla notte di paura
Il viaggio tra Beograd e Mostar è stato un trauma. Parlo per me, ma penso che i miei compagni di viaggio si dichiareranno d’accordo. L’autista ha guida sportiva, ma questo non è necessariamente un problema fintanto che le strade sono larghe ed in buone condizioni come quelle che abbiamo trovato in Serbia. Gli altri passeggeri non sembrano in vena di fare conversazione (che differenza tra il treno e l’autobus, accidenti) per cui cerchiamo di dormire.

Da qualche parte, improvvisamente, veniamo risvegliati bruscamente dal profondo barrito di un tir. Io penso "ecco l’ultimo suono che sentirò prima di morire", che banalità. Ma il tir ci schiva e sorpassa, scompare; ci eravamo semplicemente fermati dopo una curva per raccogliere un passeggero... I miei occhi staranno ben sbarrati fino alla fine del viaggio.

Alla frontiera con la Repubblica Srpska, nel corso della notte, la guardia di frontiera ci trattiene per una mezz’ora per analizzare i nostri passaporti italiani (non credo la facciano in molti, quella strada). Vediamo le guardie che parlottano tra loro, appoggiano i passaporti sull’asfalto, ritornano, riparlano. Alla fine questo ragazzo in divisa, chissà cosa ci fa lì, torna sull’autobus e ci chiede mesto se per caso non abbiamo altri documenti... mah, chissà perché. Comunque anche lì siamo passati senza problemi, il passaporto italiano funge generalmente da passe-partout, spesso non lo aprivano neppure.
Un cartello visto di sfuggita ci dà il benvenuto in questa terra famigerata e misconosciuta, in cirillico ed inglese. Welcome to republic of Srpska, mi pare, o qualcosa di ancora più sconnesso.

Il terrore inizia per me con l’ingresso in Bosnia. Ore ed ore di salita lungo strade di montagna ad una corsia e un quarto, che ogni volta che si incrociava un camion c’era da recitare un rosario, strade che si affacciavano su dirupi avvolti dalle tenebre e sconnesse. Tutto questo sempre con guida sportiva, s’intende.

Sarajevo è solo un grumo di insegne nella notte, probabilmente ne abbiamo fugacemente attraversato la periferia.

Verso le cinque di mattina inizia la discesa. Ad ogni sosta mi fumo un paio di sigarette per allentare la tensione, comincia a piovere e dai finestrini entrano spifferi gelidi. Verso le sei attraversiamo un enclave serba in Erzegovina, praticamente l’ultimo assaggio di cirillico del nostro viaggio; poco lontano l’autobus si ferma ed aspettiamo una mezz’ora che si riempia di bambini (classe 1996, o giù di lì) diretti chissà dove.

Avete presente, dopo un viaggio notturno di dodici ore in autobus, una torma di bambini che grida querula al mattino?
Ecco.
Poi iniziano a cantare inquietanti canzoncine infantili, delle quali cogliamo solo poche parole: "Karadzic","Milosevic","granata"... e giù risate. Chissà cosa cantavano, ma forse è meglio non saperlo.

Ciliegina sulla torta, per l’ultima mezz’ora di viaggio i bambini si mettono a vomitare per il mal d’autobus, passandosi il sacchetto l’uno con l’altro. Io spero che qualcuno mi dia un colpo alla nuca senza preavviso e mi lasci lì steso fino all’arrivo, ma nessuno mi fa la grazia. Teniamo duro, ormai le montagne si aprono e scendiamo nello spettacolare pianoro di Mostar, lo attraversiamo e veniamo iniettati tra le prime case distrutte ed i cimiteri bianchi.

Per tutto il resto del viaggio, chiunque ci abbia chiesto come siamo arrivati a Mostar ha sgranato gli occhi.
Da Belgrado. In autobus. Di notte.
Perché no?

In partenza dalla stazione degli autobusSosta notturna a Pecegnara




Quarto excursus: strade, stazioni, viaggi nei balcani

"Wow, it’s a very strange journey!" (Ivan, sul treno Zagreb-Ljubljana)

Oltre al nostro tragicomico viaggio nella notte, l’unico altro modo che conoscevamo per arrivare a Mostar da Belgrado era il treno, via Zagabria e Sarajevo; presumibilmente ce ne sono altri, attraversando la Serbia verso sud e poi raggiungendo Dubrovnik, ma dubito che ci si metta meno tempo. Da Belgrado non si raggiunge Sarajevo via treno direttamente, che noi si sappia, ed anche in autobus non è così scontato. Del resto la maggior parte dei turisti arriva a Mostar dalla costa dalmata e quindi via Spalato, o al limite proprio da Dubrovnik.

In tre giorni, bestie che siamo, non ci siamo neppure accorti che Mostar avesse una stazione ferroviaria: questo perché sulla mappa stradale in nostro possesso non appariva nessuna linea ferroviaria. Siamo così tornati, come leggerete in seguito, con un devastante viaggio in autobus fino a Split e di lì a Zagreb per poi scoprire che esisteva una linea diretta Mostar-Zagreb in treno... il ché ci avrebbe fatto risparmiare una decina di ore di viaggio.

Sulle strade non mi posso esprimere più di tanto, ma mi hanno assicurato che in Croazia è già ultimato il tratto di superautostrada che va da Fiume a Zagabria (meno di due ore in auto, dicono) e che stanno per proseguirla fino a Dubrovnik, il ché si tradurra in un mostro di cemento che taglierà in due i balcani, ma renderà più semplice il viaggio.

Il treno notturno che abbiamo preso da Ljubljana a Beograd, l’Olympus, prosegue ora fino ad Atene (da qualche parte è segnato ancora con destinazione Salonicco, però) e non è un cattivo treno (a parte il finestrino che non si chiudeva); inoltre tra Lju e Beo di treni ce ne sono altri, di giorno, ma non so di che tipo siano.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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