12/8
2004

Niente da vedere [7]

Eccomi arrivato all’ultimo capitolo del memoriale, l’inevitabile narrazione del ritorno a casa. Ci sono viaggi che presuppongono comunque un ritorno, ed il nostro apparteneva a questa categoria; nessuno di noi, però, sembrava troppo entusiasta dell’idea, abbiamo visto molte cose ma decisamente troppo poche, in troppo poco tempo. Chissà cosa ce ne faremo, di questa nostra (prima) esperienza balcanica.

Day 7: Home is what you call home.

All’alba il sonno si interrompe di nuovo in modo brusco. Questa volta non è colpa del muezzin, ma di un taxista che aspetta il proprio cliente davanti all’albergo, suonando con solerzia il clacson mentre si ascolta a tutto volume l’hip-hop bosniaco dall’autoradio. Ci alziamo svogliatamente, consumiamo l’ultima colazione mostarina e prepariamo i bagagli.

Abbiamo deciso di raggiungere Split con l’autobus, e da lì Zagabria o Lubiana in qualche modo. Non avevamo scoperto che a Mostar esiste anche una stazione ferroviaria, chissà dove, sulla cartina non appare neppure la linea... Saliamo su quest’autobus alle nove del mattino, non c’è neppure il tempo di prendere la stecca di sigarette d’ordinanza (a Mostar si trovano le Aura, secondo molti migliori persino delle Ronhill che comunque spopolano). In effetti, da questa città turistica ce ne andiamo senza un singolo souvenir, ad eccezione di un paio di cartoline ed un pacchetto e mezzo di sigarette.

Uscendo dalla città passiamo accanto all cimitero cattolico abbarbicato sulla collina, non meno triste e vasto di quello musulmano. Sulla prima dila di alberi, al bordo della strada, sono appesi i cartelli arancioni che mettono in guardia dal campo minato; in alcuni tratti il bosco è stato bruciato, nella speranza di far scoppiare le mine. La strada si inerpica, dopo qualche minuto raggiungiamo Međugorje dove ovviamente l’autobus si riempie di gente, anche italiani con i rosari profumati al polso. C’è colonna alla frontiera tra Bosnia e Croazia, ci mettiamo una vita a raggiungere la dogana e lì stiamo fermi altri tre quarti d’ora per il controllo dei passaporti; i doganieri sembrano intenzionati a voler perquisire i bagagli, ma si stufano dopo il primo, ci lasciano infine ripartire. Arriviamo a Spalato dopo più di sei ore di viaggio contro le quattro previste, siamo già esausti per il caldo e la scomodità.

Tutto si concentra in pochi metri, a Split: la stazione degli autobus e quella dei treni, il molo da cui partono i traghetti per ogni dove e le bancherelle per i turisti, bandiere croate, sciarpe croate, portachiavi, gagliardetti, adesivi con lo scudo a scacchi. La cosa non ci entusiasma, ancora una volta dobbiamo chiedere informazioni per il treno, cambiare valuta, fare i biglietti... il caldo è atroce e tra la calca di persone in arrivo o in partenza grasse signore con un cartello in mano ci offrono zimmer, rooms, camera... Grazie no, siamo di passaggio. Hvala, sperando che almeno questo sia rimasto uguale anche in croato. Il cartello stradale indicava ancora la strada per l’Aerodrom, ma le ferrovie croate ci augurano Sretan Put. Vabbé, per noi è uguale, grazie comunque.

Risulta necessario fermarci a mangiare in un fast food sul molo, non riusciamo neppure a capire da che parte sia la città per cercare un ristorante. In quanto al fast food, lo snaturiamo trascorrendo lì un paio d’ore, ovvero quasi tutto il tempo a nostra disposizione, bevendo le ultime Karlovachko, leggendo il giornale italiano del giorno prima spacciato nelle bancarelle a 13 kune, due euro. Si sale infine sul treno in direzione Zagreb, è semivuoto e possiamo occupare un intero scompartimento senza farci scrupoli, tirare le tende e stendere le gambe. Ancora una volta il treno parte puntuale ma arriva in ritardo, quasi dieci ore per attraversare il paese, a causa di lunghe e per noi inspiegabili soste notturne; come sempre si dorme male o non si dorme affatto, verso l’alba mi ritrovo a ciacchierare in molte lingue diverse con un ragazzo di Zagabria che torna dal mare. Gli illustro il percorso che abbiamo fatto e come tutti gli altri sgrana gli occhi, cerco di spiegargli dove siamo diretti. "Buon viaggio!" mi saluta, in italiano. "Srechan put," gli rispondo io, "Sretan put."

A causa del ritardo, la nostra coincidenza per Ljubljana è persa e dobbiamo aspettare un altro paio d’ore in stazione. Cerchiamo di capire se possiamo almeno fare qui i biglietti da Ljubljana a Venezia, ma la situazione è come quella italiana, la bigliettaia ci bestemmia dietro. Facciamo almeno colazione, o cena, ormai i nostri orari biologici sono completamente sfasati. Usciamo sulla grande piazza antistante la stazione: anche qui c’è la statua di un tizio a cavallo, certo che i cavalli vengono proprio bene in statua. Da quando la gente ha smesso di andare a cavallo, anche le statue non sono più quelle di una volta. La piazza sembra bella, ma inizia a piovere e gli ombrelli chissà dove sono finiti, non ci passa neppure per la testa l’idea di cercarli; decidiamo di tornare ai binari ed aspettare il treno. Su un muro all’angolo della piazza campeggia la scritta a spray "Smrt fašizmu".

I controlli di frontiera per la Slovenia sono i più rigorosi di tutti, ora si entra nella civilizzata Unione Europea ed occorre spiegare perché diamine la si è lasciata, innanzi tutto, o cosa ci si va a fare, se abbiamo qualcosa di speciale nei bagagli. A noi credono sulla parola, al bosniaco (o croato?) del sedile a fianco fanno aprire la borsa e ci gettano un’occhiata superficiale. Come sempre il treno arriva in ritardo a Lubiana, il prezioso Casanova è già pronto a partire e noi dovremo cambiare soldi, fare i biglietti, la prenotazione... Chiediamo affannati al controllore se possiamo salire comunque e fare i biglietti a bordo, lui ci dice di sì, di sbrigarsi a salire che il treno parte, "Smokers or not smokers?" ma il vagone non fumatori è pieno quindi per mia fortuna per una volta capitiamo tra i fumatori. E’ pieno di scout francesi e ragazze italiane tornate da Međugorje.

Il bigliettaio che ci ha fatto salire è sloveno, Nello gli racconta il nostro viaggio e lui ne è stupito e affascinato, spiega che per loro è più difficile viaggiare che per noi. Alla fine ci fa pure uno sconto sui biglietti, Nello affabula ;-)

A Villa Opicina, ultima frontiera, andiamo nel vagone ristorante a berci il caffé turco dell’addio. Ci avvicina un tipo, ha sentito prima il racconto di Nello ed attacca bottone. E’ mezzo sloveno e mezzo italiano, ma è sposato con una croata ed abita in Croazia, vicino al confine sloveno.

"Cosa ci siete andati a fare a Belgrado?" ci chiede, "I serbi sono cattivi."
"Non abbiamo visto gente cattiva." rispondiamo "La città è bella, la gente è simpatica."
Esita, riprova. "E a Mostar? Chi l’ha distrutto il ponte?"
Trasecoliamo, perplessi. "Beh... i croati."
"Questo è quello che vi hanno detto loro."
"No, non ce l’hanno detto loro. Non c’è scritto neppure sulla guida. Ma è quello che si dice."
Sorride.
"Andate anche a Vukovar, la prossima volta. Guardate là che cos’è successo. Sono stati i serbi ad attaccare, non dico i serbi quelli delle città, i civili non c’entrano, ma c’erano questi... cetnici, quelli con il teschio sul berretto. Andate a Vukovar. La Croazia e la Slovenia volevano solo libertà e democrazia, ma i serbi sono comunisti, e allora hanno bombardato."

Povera bestia ignorante che sono, al termine di un lungo viaggio mi permetto almeno il lusso di essere diplomatico.

"Va bene," rispondo "ma i croati non hanno fatto le stesse cose, da altre parti? E i bosniaci? C’è stata una guerra che è durata dieci anni, casa per casa, e tutti dicono di avere ragione. In una guerra del genere tutti hanno torto e tutti hanno ragione. Cosa cazzo vuoi che ne sappiamo noi? Non siamo venuti qui per giudicare."

Ed è vero, in parte. Non conosco abbastanza bene la storia dei balcani per mettermi a distinguere i buoni dai cattivi, ed assolutamente non lo intendo fare su base etnica o "nazionale". Abbiamo visitato delle città, visto dei posti e parlato con delle persone, ma la situazione non mi è per niente più chiara di prima. Non abbiamo fatto i turisti di guerra, di questo almeno sono sicuro, ma eravamo pur sempre turisti e siamo stati trattati come tali (cioè bene, ma cercando ogni tanto di fregarci sul cambio...) indifferentemente da sloveni, croati, serbi e bosniaci. Un viaggio così breve può permetterti di farti un’idea su molte cose, ma riguardo la comprensione di una politica così complessa non aiuta molto. Le idee che avevo prima, non sono state particolarmente intaccate; i giudizi che ho già espresso, non sono ancora pronto a rivederli. Tempo fa una persona che stimo molto mi scrisse più o meno: "Va in Kosovo e vedrai con i tuoi occhi qual’è la verità." Non soo (ancora) stato in Kosovo, ma a Belgrado e a Mostar che sono cosa diversa anche da Serbia e Bosnia-Erzegovina, nello stesso senso in cui Milano, Napoli, Roma, non sono l’Italia. Come allora, anche oggi mi tocca risponderle che non (mi) basta vedere per capire. Ho visto e sono più confuso di prima, mi consolo pensando ci mancherebbe che fai un viaggio nei Balcani e pretendi di capire. Magari ai miei compagni di viaggio è andata meglio, chissà.

Il signore italo-sloveno-croato alza le spalle, alla fin fine mi dà ragione. L’unica cosa certa, secondo lui, è che questi popoli si odieranno per sempre. Spero di no. Gli fa rabbia che i doganieri sloveni continuino a controllargli i documenti, fa quel percorso tutti i giorni e tutti i giorni quelli gli chiedono il passaporto, lo guardano e ridono. Finiamo a parlare di caffé turco, rimproveriamo Nello che ancora una volta l’ha finito troppo in fretta, non ha acquisito la mentalità balcanica.

Arriviamo a Mestre nel primo pomeriggio, ancora una volta esausti ed insonni. Da lì a casa è solo un trascinarsi.

Così finisce questo buffo ed inconcludente diario a posteriori di un viaggio molto intenso e troppo breve; come alcuni ci avevano annunciato, non c’è niente da vedere da quelle parti eppure noi l’abbiamo visto lo stesso. Non è stata un’avventura ma neppure una vacanza rilassante, diciamo una via di mezzo. Ancora una volta, a costo di sfinirvi, desidero ringraziare Babsi per il diario del suo viaggio ed i consigli pratici e linguistici, Regina per l’impagabile aiuto e per essersi presa cura di noi (peccato averla persa per strada, la nostra quarta compagna!) e persino gli amici e compagni di viaggio con i quali ho progettato e realizzato questa idea assolutamente perversa della vacanza balcanica.

IL BRADIPO SALUTA E RINGRAZIA.

Manca la voglia di tornareThank you people of JapanGrifo a SpalatoPure Nello a SpalatoSi ha ancora la forza di scherzare prima di partiredalla stazione di ZagrebLa stanchezzasi leggenegli sguardi





Settimo excursus: usi e costumi degli slavi del sud.

"Italijanski, Srpski... Jedna lice, jedna rasa." (Lusky)

Questi popoli balcanici mantengono naturalmente nella vita di tutti i giorni alcune usanze che a noi popoli occidentali appaiono bizzari, desueti o incomprensibili. Farò alcuni esempi per dimostrare come avesse inequivocabilmente ragione chi parlava, prima della nostra partenza, di popoli "non civilizzati".

In primo luogo, quasi dappertutto (dove siamo stati) il pulsante per accendere la luce in bagno si trova fuori dalla porta anziché all’interno, costringendomi ogni volta a riaprire la porta, brancolando nel buio, per cercare il pulsante. Il ché è scocciante. Grifo dice che è così anche a casa sua, da cui ne deduco che anche nei pressi del borgo natio permangono zone scarsamente civilizzate.

Inoltre, sono pressocché assenti dai bar le patatine in sacchetto. Come tutti sanno non è possibile vendere birra se non si hanno a disposizione patatine, da cui ne deduco che questi popoli prosperano nell’illegalità.

Come se non bastasse, agli attraversamenti pedonali non è presente il "pulsante placebo" da premere spasmodicamente fino a quando il semaforo diventa verde, a mo’ di scacciapensieri. Questo può forse spiegare alcune tensioni sociali, ma denota chiaramente un’estraneità culturale rispetto al resto d’Europa.

Infine, anche se personalmente l’ho molto gradito, si può fumare in quasi tutti i ristoranti ed i bar, alla facciazza del ministro Sirchia e di chi lo precedeva, mostrando scarso rispetto per le imposizioni delle autorità straniere.

Tutto questo evidenzia la frattura insanabile tra noi e questi popoli, diversi tra loro ma simili per chi li guarda dallo scalino successivo dell’evoluzione. Per fortuna - almeno - hanno Coca Cola e MacDonald come si conviene al buon gusto, e sembrano apprezzare la pizza.



P.S.: A scanso di equivoci... mannò, dai... lo avete capito da soli che ero ironico.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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