19/1
2005

Domenica nella Città Molto Grande

Quella volta avevo già deciso di non partire. Per quanto il viaggio fosse molto più breve di quello a Napoli, non avevo voglia di viaggiare di nuovo da solo ed i miei amici erano presi da impegni diversi. Pazienza, mi ero detto, ci saranno altre occasioni.
La sera sfoglio distrattamente il giornale e leggo che nella stessa città, la Città Molto Grande, era esposto un quadro del maestro, una tela che non vede l’Italia da due secoli e che potrebbe tornare ad ammuffire a Dublino per i prossimi due secoli. L’esposizione durava solo fino al giorno seguente, come l’altra mostra che intendevo visitare. Non ho in programma viaggi a Dublino, prossimamente. Il messaggio più chiaro che il karma potesse inviarmi senza disporre del mio numero di telefono.
Stampo cartine ed orari dei treni, non sono pratico della Città Molto Grande: l’ultima volta che ci sono stato, l’Inter non aveva ancora vinto il suo ultimo scudetto. Ci dormo sopra e parto con il primo treno, il viaggio è così breve che non vale la pena di raccontarne i dettagli, lo trascorro finendo di graffiare sul taccuino gli appunti dell’esplorazione di Napoli mentre una coppia di fidanzati si sbaciucchia sul sedile di fronte senza imbarazzo per la mia silenziosa presenza. La Città Molto Grande è brutta, mi chiedo se chi l’ha progettata abbia mai preso in considerazione l’ipotesi che degli esseri umani potessero viverci. Del resto, mi chiedo anche se chi ha progettato le mie clarks abbia mai preso in considerazione che la gente potesse usarle per camminare più di dieci minuti.
La stazione dei treni è enorme, imperiale, fascista, ne esco il prima possibile e mi infilo in metropolitana senza perdere tempo alla ricerca di autobus, stavolta. Mi piace la metro, a voler tralasciare l’odore di piscio. Mi faccio portare al centro di tutto e da lì mi sposto a piedi, guardandomi attorno, cercando di capire se ci sia un fascino nascosto in quel posto grigio sotto quel cielo grigio. Non ci riesco, la Città Molto Grande mi rende nervoso, lo sguardo dei passanti mi rende diffidente. Napoli la batte a tavolino, non c’è che dire.
Raggiungo il primo museo, non c’è fila alla cassa né ressa dinanzi al quadro del maestro e mi ci posso fermare tutto il tempo che voglio, ci vuole quasi mezz’ora prima che possa ritenermi completamente appagato. Inizio l’anno come ho finito il precedente, o meglio. Riesco a fare pace almeno con lui dopo che l’ultima volta c’eravamo salutati così scortesemente. E’ meraviglioso, spero che gli irlandesi lo trattino bene. Per quel che mi riguarda ora potrebbero anche nuclearizzare la città.
Alle altre tele riservo uno sguardo compassionevole, come possono non sbiadire di fronte alla bellezza che hanno accanto, sorrido solo di fronte ad una veduta settecentesca di Castel dell’Ovo. Ipertesti, penso agli ipertesti.
Mi incammino verso la seconda mostra, sulla cartina avrebbero dovuto specificare che le scarpe da dandy wannabe fanno raddoppiare le distanze, la Città Molto Grande si avvolge sempre di più nel suo lenzuolo funebre umidiccio e maleodorante e le strade si svuotano per l’ora di pranzo.
Mi fermo in una piazza più brutta delle altre a mangiare un panino, sarà destino che io ed il maestro ci incontriamo a stomaco vuoto. Giro l’angolo, attraverso il parco (non perché fosse necessario, ma il verde bagnato dell’erba mi attirava) ed entro nel secondo museo, se di museo si può parlare.
Neppure qui devo aspettare un minuto, entro ed ammiro un genio di stampo completamente diverso dal maestro. Un genio, comunque, che ha dipinto in più di un senso il secolo scorso e al quale gli artisti successivi dovrebbero pagare almeno un martini. Guardo, leggo, ascolto con attenzione. Tutti conoscono il genio, ma io non sono tra quelli che si possono vantare di conoscerlo bene e me lo gusto senza alcuna fretta, come si deve. Peccato scoprire che come al solito il catalogo costi decisamente più dei soldi che ho in tasca: best art sarà anche il business, ma nel mio portafogli non trovo arte né parte. Paz. Memorizzo.
Esco che l’ora di pranzo è ormai passata ed inizia a muoversi un po’ di gente, mi incammino verso il ritorno dispiacendomi di non aver avuto modo e tempo di avvisare alcune mie conoscenze riguardo la mia visita in città, forse mi avrebbe fatto piacere incontrarle. Passeggio fumando per il cortile del castello, entro in una libreria e provo angoscia nel sentire la metropolitana passarmi sotto i piedi. Terminata la tregua artistica, la Città Molto Grande ricomincia ad innervosirmi. Noto il manifesto di una terza mostra, sono un bel po’ in anticipo sui tempi previsti, la trovo e mi ci infilo. Piacevole sorpresa, ma vedo poco che mi colpisca veramente: l’artista giovane è bravo ma mancano l’esposizione si riduce a poche tele meravigliosamente tristi. Il quadro del maestro e le sue ombre rimangono insuperabili, capisco che per quel giorno la Città Molto Grande non può offrirmi nulla di meglio. Persino la famosa galleria sembra un’imitazione di poco gusto di quanto già visto a Napoli.
Raggiungo la metro e da lì arrivo direttamente in stazione, salgo sul primo treno che viaggia verso oriente. Tutto pieno, mi stringo in corridoio e pazienza, ormai mi sto abituando. Per la seconda volta in dieci giorni il maestro mi ha spinto ad abbandonare Villa Gelida ed il suo confortevole divano; tira più di un carro di buoi, anche lui.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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