7/3
2005

Di case stregate vicino ai torrenti

Allora il mondo era più piccolo ed aveva confini molto più precisi. Verso il basso - la pianura, la città - eravamo limitati dalle due strade di ingresso al paese, discese troppo rischiose all’andata, salite troppo ripide al ritorno per affrontarle con le nostre biciclette e le nostre gambe corte. Non che ci fosse la tentazione, che altro era mai la città se non parenti noiosi da visitare ed estenuanti negozi di scarpe? Un susseguirsi di strade e case viste dal finestrino posteriore di un auto, asfalto e cemento, un luogo sconosciuto e lontano quanto l’america ma assai meno affascinante, dato che non passava mai sulle nostre televisioni in bianco e nero. Neppure verso l’alto ci si poteva spingere a piacimento, al massimo fino alle contrade più vicine, stando attenti al bosco. Entro quei ristretti confini rimanevano le strade, i cortili, i prati e gli orti dietro casa, dove ogni adulto ci poteva tenere d’occhio, ammonire come a scuola; quell’odiosa rete di vecchi spioni e mamme impiccione era il più efficace sistema di protezione della specie che la tradizione rurale avesse messo a punto in migliaia di anni. Naturalmente, era imperfetta. C’era sempre un muretto da saltare per sottrarsi agli sguardi indiscreti, o almeno così ci si illudeva.
Il rifugio più sicuro, in quel ritaglio di mondo, era la nostra casa abbandonata. Ci entravamo da una finestra sul retro che chissà come eravamo riusciti ad aprire, ed era il nascondiglio perfetto. Con esuberanza provincialista l’avevamo ribattezzata "Spectrum" o qualcosa del genere, ben sapendo che ogni vecchia casa abbandonata deve essere stregata ed ospitare dei fantasmi, per quanto questi fossero evidentemente così imbarazzati dalle nostre scorribande da non volersi manifestare in alcun modo. Ricordo l’odore del legno ammuffito, uno strato di polvere spesso due dita ed una botola che portava in soffitta, chissà dove abbiamo trovato la scala per raggiungerla, e noi ci sedevamo lì a raccontarci storie seduti su cuscini recuperati da vecchi divani alla discarica, illuminati dalle candele rubate in chiesa, fieri come cospiratori in quella tana segreta, in quel centro sociale prepuberale. Fumavamo tralci secchi e sottili che si chiamavano visoni, o quando ci andava di lusso qualche sigaretta fregata ai nostri vecchi. Se riuscivamo a mettere insieme abbastanza soldi, arraffandoli senza scrupoli o guadagnandoceli tra lavoretti e mance, ce ne andavamo a prendere un pacchetto dal tabaccaio, stando sempre ingenuamente attenti a specificare che non erano per noi. Dalla casa, in un attimo raggiungevamo il torrente che sega in due il paese come una vecchia cicatrice e lo risalivamo fin dove era possibile saltando di sasso in sasso, stando attenti a non infilare un piede nell’acqua schiumosa o tra le siringhe che spuntavano qua e là dal terreno. Sulle sponde facevamo le guerre con i bastoni, fino a quando qualche adulto attirato dalle grida ci scopriva e si metteva in mezzo intimandoci un armistizio. Eravamo ancora tutti così piccoli e magri e ossuti che si poteva fare a botte tranquillamente, qualcuna ne davi e qualcuna ne prendevi, senza quelle ingiuste differenze di peso e muscolatura che negli anni successivi avrebbero drasticamente determinato l’esito degli scontri. Erano tempi più democratici, si poteva risolvere qualsiasi questione ricorrendo a pugni, calci, morsi ed unghiate con possibilità di successo pressoché uguali.
Oltre che per fumare, nella nostra casa segreta ci andavamo a pianificare il sabotaggio dei capanni di caccia nei dintorni, poi realizzato strappando le frasche che li nascondevano ed appendendo ai rami intorno cartelli colorati per spaventare e mettere in salvo gli uccelli. Animati dal più nobile spirito ambientalista, su quei cartelli ci scrivevamo pure slogan altisonanti ed insulti all’indirizzo dei cacciatori; almeno, lo abbiamo fatto finché i cacciatori medesimi ci hanno colto sul fatto e spedito a casa a calci in culo. La democrazia, in effetti, valeva solo tra di noi, contro gli adulti non c’era nulla che potessimo fare e sembrava che ogni nostro passatempo desse loro in qualche modo fastidio. Progettavamo rivoluzioni.
Alla fine hanno scoperto la nostra base, naturalmente, e ci hanno scacciato anche da lì. Facevamo troppo rumore, o qualcuno ha notato il movimento attorno a quella finestra. Magari avevano sempre saputo che andavamo lì e ci hanno fatto sloggiare prima che la voce arrivasse al proprietario (perché pare impossibile, ma anche le case abbandonate hanno un proprietario da qualche parte) o temendo che le assi del pavimento cedessero sotto i nostri piedi. Il genere di paure da cui i bambini sono immuni.
Qualche anno dopo hanno ristrutturato la casa, ora sicuramente ci abiterà qualcuno. Mi chiedo che faccia abbia fatto il primo che ha infilato la testa oltre la botola della soffitta, scoprendo i cuscini marciti e le candele ed i fumetti disegnati sulla parete e la rabbia ed i desideri e tutti quegli altri fantasmi che aleggiavano in mezzo alla polvere.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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