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2015

I cimbri non dimenticano

Dopo un lungo periodo di silenzio, riprendo il discorso da dove l’avevo interrotto: l’ultimo libro della saga cimbra di Umberto Matino, "Tutto è notte nera". Anche se qualcuno potrebbe credere di notare i sintomi di una lieve ossessione, che non mi sento di confermare né di smentire, vi assicuro che ho impiegato tutto questo tempo a leggere il libro, naturalmente. C’ho avuto anche altro da fare, come ho già scritto dall’altra parte. Mi sembra però opportuno, ora che l’ho letto, tornare a soffermarmi brevemente su questo romanzo che ancora una volta va a destare dal loro sonno secolare i cimbri della Val Leogra.
Perché?, chiede il bambino dall’ultima fila.

Ebbene, fino a pochi anni fa, da queste parti dei cimbri non importava niente a nessuno. C’erano il panda gigante, la tigre dai denti sciabola ed i cimbri, tutti tristemente votati all’estinzione... ma non è poi che non ci dormissimo la notte. Non io, almeno, e neppure il selezionato campione di giovani avvinazzati che frequentavo. Magari il fior fiore della classe intellettuale vicentina passava i sabati sera a discutere di storia locale e toponomastica cimbra, va a sapere, non ci invitavano mai alle loro feste e comunque è stato scientificamente dimostrato che l’opinione della classe intellettuale vicentina è l’elemento meno influente dell’universo. Per la maggior parte di noi popolino, in definitiva, i cimbri erano solo una minoranza linguistica asserragliata in un paio di paesuncoli dell’altipiano ed in qualche remota valle della Lessinia, che non avevamo mai visto e che non avevano niente a che fare con noi del pedemonte.

Poi un giorno arriva Matino, pubblica un romanzo che passa di mano in mano con la velocità di un incendio nella prateria, ed improvvisamente tutti scoprono che ehi, i cimbri siamo noi, abitanti della Val Leogra e dintorni, siamo noi padri e figli, siamo noi bella ciao che partiamo. La Val Leogra, il Tretto, Posina, persino la Valdelà e tutto il circondario brulicano degli ignari discendenti dei coloni teutonici che presero il nome di cimbri. Ed io che pensavo che la caratteristica "erre" del Tretto fosse solo il sintomo del degrado genetico dovuto a secoli di accoppiamenti tra uomini e capre! Per un attimo, con la scusa di leggere un racconto ambientato nel tinello di casa propria, il Veneto che lavora si è fermato e si è interrogato sul proprio passato, scoprendo cose di cui nessuno gli aveva mai parlato o che aveva dimenticato: le invasioni degli ungari, i vescovi feudatari, gli immigrati tedeschi, la miseria e la fame che per secoli hanno resa aspra la vita di queste montagne, il folklore e le sue favole più o meno spaventose.

Io non amo i romanzi gialli ed in generale nessun racconto in cui i carabinieri facciano bella figura, ma Matino riesce sempre ad avvinghiare saldamente le proprie trame delittuose a posti un po’ selvaggi e raminghi, vicini ma allo stesso tempo sempre emarginati, ai confini di questo Nordest industriale ed ambizioso, nel disprezzato e un tempo poverissimo contado. Anche in "Tutto è notte nera" le storie umane più disparate si intrecciano con la Storia con la esse maiuscola, le sue schiere armate e pestilenze, i grandi movimenti ereticali ed i tiranni medievali. Forse sta proprio qui il fascino dei libri di Matino, più che nell’indovinare chi sia l’assassino di turno: scoprire nel corso della lettura che a due passi da casa si è ritirato in presunta preghiera Ezzelino da Romano senior, o che il "castello" di Pieve dove noi andavamo ad ubriacarci era veramente un castello, o che questo pio angolo d’Italia era nei tempi andati un covo di eretici anarchici. E soprattutto, che qui è sempre stato pieno di cimbri, cimbri come se piovessero, con la loro cultura contadina e le loro tradizioni teutoniche che nei secoli, per amore o per forza, si sono poi fuse con quelle degli autoctoni. Storia ed invenzione sono così ben mescolati da suscitare un’inevitabile curiosità: sarà vera la storia di quella chiesa, di quella contrada, di quella donna, di quello stemma? E chi diavolo è Piero Porco*? Domande che un giorno potrebbero trovare risposta di fronte ad un paio di bicchieri di vino, ma questa è un’altra storia.

E’ facile, specialmente in periodi di crisi economica e culturale come questi, cedere alla tentazione di rifugiarsi nel folklore ed in una idealizzata ricerca delle "radici", di un’identità mitica con cui farsi scudo dai problemi che ogni giorno deliziosamente ci rompono i totani. Sarà anche per questo che negli ultimi anni tendono a proliferare nella steppa vicentina sagre medievali, feste celtiche e birre cimbre che si appellano ad aspetti del passato locale forse marginali, quando non inventati a tavolino. C’è un vasto movimento politico che ha fatto del localismo la sua prima ragione d’essere, e come questo sia degenerato nel razzismo, nel fascismo e nell’utilizzo strumentale delle presunte tradizioni è palesemente sotto gli occhi di tutti. Nei romanzi di Matino, la tradizione è invece materia culturale viva, a volte preziosa, spesso crudele come i mostri delle fiabe ed i morsi della fame, è frutto della storia dei popoli che, come onde, si sono nei secoli abbattuti contro questi monti e lungo queste valli. Il territorio che vi fa da sfondo è avaro con chi ci abita ma allo stesso tempo costantemente minacciato da contadini avidi, vescovi senza scrupoli e principi ambiziosi, figure che non sono scomparse con l’arrivo della modernità ma che si possono ancora riconoscere negli industriali ignoranti che erigono orribili capannoni fin dentro i greti dei torrenti, nei politici localissimi che vogliono ancora cementificare intere vallate con allucinanti grandi opere e nell’ottusità della cosiddetta società civile che pensa solo ai propri interessi particolari senza curarsi, se non a parole, della bellezza e dell’integrità del posto dove vive.

A volte anch’io, come i personaggi di Matino, mi sento combattuto tra l’attrazione per l’affascinante isolamento della vita rurale, come il misantropo orso cimbro che sono, ed il rifiuto per quel mondo durissimo e chiuso. Non sono neanche particolarmente affezionato a questi quattro sassi spelacchiati, in fondo, e le mie radici stanno benissimo dove sono: sotto terra. Di una cosa, però, sono sempre più convinto con ogni pelo bianco che mi spunta sulla barba: questi quattro sassi che sorvegliano la pianura dall’alto, questi boschi inselvatichiti popolati da caprioli e salbanelli e soprattutto la paura che ti incutono quando ti trovi ad attraversarli la notte dureranno molto, molto di più dei nostri castelli, capannoni e centri commerciali.

* I cimbri non dimenticano.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




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