Odio la resilienza. Fino a qualche anno fa non ero neppure consapevole dell’esistenza di questo vocabolo, poi improvvisamente esploso e divenuto onnipresente: sui social, nella narrazione giornalistica italiana, nei messaggi motivazionali da quattro spicci al chilo che girano tra i filosofi di whatsapp.
Wikipedia la definisce come “la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.” Non so, e non mi interessa sapere, se il termine esita anche in altre lingue. La resilienza è una caratteristica tipicamente italiana. “Resiliente” è il friulano che si rimbocca le maniche ed inizia a ricostruire la propria casa il giorno dopo il terremoto, il romano che si arrabatta tra la vita di palazzo e quella di borgata, resiliente è il veneto stakanovista, “muso duro e bareta fracà”, come il meridionale che sopravvive trovando varchi nelle maglie del sistema. La resilienza è più italiana della pizza e del caffè espresso. È una capacità individuale di tener botta di fronte alle avversità, di adattarsi e tirare avanti. Puoi nobilitarla quanto vuoi: è una capacità passiva, talmente passiva che il vocabolo non possiede neppure un verbo corrispondente: almeno nel linguaggio comune l’individuo è resiliente, non “resilie”.
Per tutta la loro storia, gli italiani sono stati resilienti: hanno sopportato senza grande entusiasmo l’unificazione del paese, si sono adattati al fascismo, hanno ingoiato il rospo di due guerre mondiali per poi tirare a campare per tutto il dopoguerra. Hanno “fatto fronte”, ma senza “alienare la propria identità” cioè senza cercare un vero cambiamento, alla mafia, alle catastrofi naturali, al malaffare nella vita politica e lavorativa, all’erosione dei propri diritti, alla distruzione della sanità pubblica, alla perdita degli orientamenti politici, ai disastri ambientali. Hanno tenuto botta, tirato a campare, manifestando una ammirevole capacità di resilienza. Anche ora, chiusi in casa in una situazione fino a poche settimane fa inimmaginabile, con un governo che a malapena sarebbe in grado di organizzare una pizzata tra amici del calcetto ed istituzioni locali in preda all’ubriachezza, gli italiani sanno dimostrare grande resilienza. Forse è il caso che prima o dopo la smettano, che cedano, che abbiano una crisi di nervi collettiva e non si adattino più. In Italia, diceva qualcuno, ci sono sempre tutte le condizioni per fare la rivoluzione, ma alla fine questa non si fa mai: è per colpa della resilienza, aggiungo io. Aboliamola. Non riorganizziamo positivamente la nostra vita. Diamole fuoco.
Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.