Negli ultimi mesi ho sviluppato una crescente repulsione nei confronti della scrittura. Realizzarlo ed ammetterlo con me stesso mi è costato molto, così come mi costa ora battere i polpastrelli sulla tastiera, cercare le parole giuste, trascrivere quello che penso. Attività che per la maggior parte della mia esistenza sono state gioiose, ora si rivelano un peso. Devo interrompermi spesso, trascuro la forma e gli inevitabili errori ed approssimazioni. Non ho ancora ben chiare le ragioni di questo disamore, forse ha a che fare con la mole ributtante di parole che mi tocca inghiottire ogni giorno, ragionamenti ben esposti per giustificare il male che ci circonda. Incespico su ogni parola, e procedo con estrema riluttanza.
Piuttosto che produrre altre inutili parole, passo ore a spulciare le piaghe di questa marcescente società dell’informazione abbeverandomi del peggior veleno che riesce a produrre. Social network e quotidiani online ribollono di articoli e commenti carichi di odio, crudeltà ed ottusità, cerco di leggerne il più possibile fino a diventarne assuefatto, guardo le facce, i profili di chi si augura la morte di altri esseri umani, di chi giustifica lo squallore della propria esistenza addossandone la colpa ad altri, di chi cerca un capro espiatorio, invoca la dittatura ed i campi di sterminio, rifiuta qualsiasi capacità di pensiero critico. Guardo quelle facce e mi convinco che siano in gran parte persone normali, ne deduco che la normalità sia diventata, o più probabilmente sia sempre stata, aberrante. Penso ai pogrom, ai flagellanti, la caccia agli eretici, la guerra dei boxer. Tutta questa nostra presunta civiltà non è altro che una maschera, la gente comune vuole il machete, vuole lasciar sfogare la propria belva interiore, vuole cibarsi di carne umana.
Oppure, semplicemente, sono stato anch’io contagiato dalla narrazione collettiva, dalla paranoia telecomandata che ci spinge a cercare un nemico ovunque, a vedere gli altri non come persone ma come creature pericolose. Ad ingigantire le mie paure fino a lasciare che occupino tutto l’orizzonte.
L’altra notte ho fatto un sogno. Si era scatenata una pandemia mortale, tutti ci affrettavamo verso i supermercati per fare scorta di beni di prima necessità, un po’ per barricarci in casa ed un po’ per il timore che la società sarebbe collassata e non sarebbe più stato possibile trovare di che sfamarci. Ci aggiravamo tra gli scaffali già semivuoti e buttavamo nel carrello qualsiasi cosa sembrasse appetibile nel caso di un lungo assedio: bottiglie di passata, pan biscotto, pasta. Ormai erano rimasti solo i barattoli giganti di cetrioli sottaceto, che nessuno voleva. Non si percepiva vero e proprio panico, solo una sorta di calma ansiosa, mentre ci mettevamo diligentemente in coda alla cassa. Solo a quel punto mi rendevo conto con una certa inquietudine che qualcosa non tornava, in quello scenario preapocalittico: non c’era in effetti nessuna traccia della pandemia di cui tutti parlavamo. Nessuno sembrava realmente ammalato, nessuno tossiva o starnutiva. Nessuno affermava di aver visto realmente dei cadaveri per la strada, nessuno conosceva nessuno che fosse stato veramente colpito dal morbo. C’era solo la paura... e tanto era bastato per farci correre a comprare della roba, per proteggere noi stessi e le nostre famiglie. Un sogno non è un oracolo, ma a volte può essere uno strumento irrazionale per dare un senso razionale a quello che già si pensa.
Proprio quando stavo iniziando a perdere la fiducia nel valore dell’anarchia e della specie umana in generale, a causa di un banale guasto si è spento un semaforo vicino a casa mia. È rimasto spento per quattro giorni, e sono stati gli unici quattro giorni in cui il traffico in quell’incrocio scorreva rapido e regolare in tutte le direzioni.
Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.