5/2
2016

First world problems

Da qualche tempo a questa parte ho un portacellulare agganciato alla grata della ventola di riscaldamento dell’auto. E’ un portacellulare onesto che ho comprato cinque o sei anni fa, con la tenaglia rivestita di gomma morbida e due piedini su cui appoggiare il telefono, una roba stabile. Di solito ci aggancio il telefono per ascoltare la musica e, dato che l’altoparlante del telefono non suona bene, ho anche un cavetto che va dal jack delle cuffie del telefono all’autoradio. Comodo, eh, a parte che il cavetto è lungo due metri e fa tutto il giro dell’auto ma pazienza, un giorno passerò al bluetooth.
Il fatto è che in occasione dell’ultima festa del Sol Invictus, poveraccio direte, ho cambiato telefono ed il jack delle cuffie che prima stava sopra ora sta sotto ed è nascosto da uno dei piedini del portacellulare, per cui non potevo più agganciarlo al portacellulare e contemporaneamente collegarlo all’autoradio, e quindi perché vivere?
Per il primo mese, come mio solito ho fatto finta di niente aspettando che il problema in qualche modo si risolvesse da solo. Non è successo niente (che strano). Potevo ascoltare la musica dall’altoparlante del telefono agganciato, oppure collegare il telefono all’autoradio e lasciarlo svolazzare per la macchina, ma io volevo tutto e lo volevo subito. Qualche volta mettevo il cellulare a testa in giù, ma rischiavo un incidente ogni volta che dovevo cambiare canzone e scambiavo la destra con la sinistra. Allora mi sono messo a cercare un altro portacellulare, specifico per il mio stramaledetto modello con il jack delle cuffie sotto, ma ora vendono più che altro quei cosi magnetici ed io ho paura che mi cancellino i contatti della rubrica, e poi mi scocciava cacciare soldi per qualcosa quasi uguale a quello che avevo già. Ho progettato un portatelefono da auto da farmi in casa, bellissimo, ma sai che sbattimento per un maledetto piedino. Allora ho pensato, prendo il portacellulare che ho e gli spezzo una zampina, tolgo quel maledetto ostacolo da davanti al mio jack e sistemo tutto. Torno alla vita. Ci ho provato. Ho scoperto che la zampina si poteva piegare e chiudere.

Questo per dire che la mia maestra delle elementari quando diceva che ero un bambino tanto intelligente non aveva capito un kaiserschmarren.

Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.




28/1
2016

La banalità del bianco

Recentemente, per motivi eterodossi, mi sono trovato a passeggiare brevemente per i corridoi della facoltà di sochologia a Trento. Avevo frequentato gli stessi corridoi con molta più assiduità intorno alla fine degli anni Novanta, e mi è stato difficile non provare una certa afflizione. Lo storico edificio di via Verdi è stato negli anni rimesso a nuovo, ridipinto, lustrato: tutto mi è sembrato più moderno e pulito, meno accogliente. Non ci sono più i bagni misti dove si fumava in attesa di un esame, sparita la piccionaia, scomparse le macchie nere sui pavimenti delle aule dove erano state spente innumerevoli sigarette, in un’era precedente la nostra. I ragazzi ci soffrono ancora ma sono ragazzi splendidi, moderni e puliti, ben diversi dai cialtroni maleodoranti che eravamo noi, riconoscibili ad un chilometro. Questi hanno capelli pettinati e sopracciglia ad ala di gabbiano, potrebbero studiare qualsiasi cosa, in un posto qualsiasi. Della vecchia sochologia, da questa rapida visita, mi sembra essere rimasto soltanto il guscio. Magari mi sbaglio, certamente sono passati molti anni ed il mondo cambia, mentre noi guardiamo splendide serie tv e giochiamo al cellulare. Il mondo cambia, mentre noi ci sporchiamo le mani per cambiarlo o per cercare di tenerlo fermo. Il mondo cambia, mentre noi continuiamo a correre in avanti come maratoneti spompati, ed è giusto oltreché inevitabile. Persino i ricordi, cambiano. Ci si divertiva, a sochologia, ma sicuramente non era il nostro passatempo principale. Di ore spese ad amare e soffrire ed odiare e dormire e fissare il soffitto e spremersi il cuore e il cervello rimangono solo le schegge più brillanti, gemme strappate alla sabbia. Il vero delitto è cercare di rendere normale qualcosa di speciale, tornare a camminare per quei corridoi e scoprirli ridipinti di bianco. Ordinati. Banali. Poi capisci che così è com’era previsto che fossero fin dall’inizio, come forse erano sempre stati. Siamo stati noi a riempirli di scritte e cicche appiccate. Per questo è così doloroso, quel posto era speciale perché mi apparteneva, mi corrispondeva di una corrispondenza che non può essere confrontata coi fatti né espressa a parole, si nutre di ricordi, sensazioni, sentimenti, giochi di sguardi tra noi e il tempo che passa. Il gigantesco non detto. Spero che sochologia sia ancora speciale per quelli che la vivono ora, anche se sarà uno speciale diverso dal mio. In ogni caso, dovessero anche crollare le colonne del portico e le aule vuote trasformarsi in una squallida banca, dovessimo anche morire o dimenticare tutti, la corrispondenza continuerà a sopravvivere agli anni, alle rughe, ai successi ed ai fallimenti, ai contratti, ai naufragi, ai segreti ed alle bugie, ai silenzi, ai tradimenti e persino alla cosiddetta ed improbabile normalità. Troverà un suo canale speciale nella nostra storia personale, come un rigolo d’acqua che viene inghiottito dalla terra e sgorga dal nulla cento chilometri più in là, vent’anni dopo. Non nel passato, sempre nell’istante. Per questo è speciale.




21/1
2016

Famiglie modello

Sono figlio di una coppia eterosessuale. Non era difficile indovinarlo, visto che qualsiasi altro tipo di famiglia è tuttora illegale in questa magnifica succursale del Vaticano dove viviamo. Sono cresciuto in una famiglia normale, ovvero lecita secondo le norme vigenti: un padre, una madre, un fratello, io e una sorella. Mio padre lavorava molto, davvero molto, credo di averlo visto per la prima volta intorno ai sei anni. Mia madre lavorava part-time, ci lasciava da nonna che aveva la televisione a colori. Erano tempi duri, la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta, meno squallidi di adesso ma comunque duri. Mio fratello più grande mi menava, doveva sfogare la tensione di vivere in tempi così duri e sfortunatamente non avevano ancora inventato la playstation. Io menavo mia sorella più piccola, perché così funzionava l’ecosistema (erano tempi duri). Le mie famiglie ideali di riferimento erano La famiglia Addams, la comunità hippie dei Puffi e tutta una serie di orfanelli/e giapponesi che vivevano con i più disparati parenti, oltre ad esempio al giovane Jim che aveva un rapporto di figlialità surrogata con due diversi maschi adulti e alle sorelle March, a cui mancava un modello patriarcale. Ciononostante, contrariamente a tutte le aspettative, ora sono un adulto sano e disfunzionale come chiunque altro.




15/1
2016

The man who sang the world

Avrei voluto dire anch’io la mia sulla morte di David Bowie, perché quando muore uno famoso pare che se non condividi qualche parola di cordoglio sei un ignorante o non gli volevi bene. Io sarò anche un ignorante ma ci volevo bene, al David Bowie. Solo che non so cosa scrivere, di musica alla fin fine non ne capisco poi tanto e ripetere come tutti che era un genio perché ha fatto delle cose geniali mi sembra un po’ insulso. Potrei citare qualche canzone, ma in fin dei conti ne conosco a malapena un paio di dozzine sulle centinaia che lui ha cantato, mica come tutti i veri fan che su facebook hanno citato bellissimi versi ad esempio da Space Oddity, o Heroes, o Space Oddity, o Heroes, o Space Oddity, o Heroes, o Space Oddity, o Heroes, o Space Oddity, o Heroes, o Space Oddity, o Heroes, o Space Oddity, o Heroes, o Space Oddity, o Heroes, o Space Oddity, oppure ancora Heroes. Io in fondo non me ne intendo tanto neanche di David Bowie, mi sa, so solo che di lui conserverò nel cuore ad imperitura memoria:

- la faccia
- i capelli
- il re dei goblin
- le canzoni (una decina)
- il proposito di chiamare il cane "Devid Bau" se mai ne avrò uno


Ora vado perché è morto pure il tipo che interpretava Renato Zero in Harry Potter e devo elaborare il lutto.




21/12
2015

Come funziona la Forza

Dimostrando sommo disprezzo per il freddo, il sonno e l’età che portiamo, sabato sera io e l’amico Pornorambo siamo usciti dai rispettivi relitti di AT-AT che utilizziamo come abituale dimora per andare in un romantico cinemino di periferia a vederci l’ultimo prodotto dell’industria di intrattenimento amereggana. Per puro caso ci siamo orientati su Star Uors: De fors ewekins. Le nostre aspettative, su una scala da 1 a 10, si ponevano più o meno a livello "Secchio di escrementi di Bantha" che si pone tra "Jar Jar Binks" e 1. Tempo cinque minuti non solo ci eravamo ricreduti, ma eravamo lì con la bavetta alla bocca. E’ bello, eh. Il migliore remake dell’originale che potessero fare, divertentone e appassionante, nonché la dimostrazione che si può ancora mettere mano al marchio Star Uors senza andare per forza a pescare nella sabbietta dei Bantha. Per questo ho deciso di raccontarvelo un po’ a grandi linee, come ai bei tempi.

Seguiranno spoiler. Tantissimi spoiler. Una galassia di spoiler. Se non sapete cos’è uno spoiler proseguite pure con la lettura, si tratta di un grazioso roditore nordamericano che non ha nulla a che vedere con i nostri amici Jedi. In caso contrario, vi lascio tre puntini di sospensione verticali per svignarvela.

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I titoli di testa ci informano con Liuk Skaiwokke che è scomparso e tutti lo cercano, un po’ perché è l’ultimo cavaliere Jedi in circolazione e un po’ perché spettava a lui pagare sessant’anni di affitto e bollette arretrate del tempio Jedi su Coruscant, e nessuno si era ricordato di spegnere il riscaldamento. Dove sia andato, nessuno lo sa, neppure il suo fido astrodroide R2-D2 che se ne sta in un angolino a prendere polvere nel quartiere generale della Resistenza, perché evidentemente hanno un sacco di spazio superfluo in quel posto. Il film comincia sul pianeta Jakku, un luogo deserto ed inospitale come il cervello di Salvini, dove un pilota della Resistenza di nome Boh riesce ad ottenere un prezioso indizio per localizzare Liuk. Tanto per cambiare, però, Boh viene subito catturato dalle truppe dell’Impero 2.0 guidate da Kylocal, un fanboy di Darth Vader con serissimi problemi di gestione della rabbia, che stermina anche il suo misterioso contatto, tutti gli abitanti del villaggio, quelli del villaggio vicino e gli animali migratori che passavano di lì, giusto per far capire a tutti quanto sia profonda la propria malvagità. Per fortuna Boh ha un guizzo di genio ed originalità e prima di essere preso mette al sicuro le informazioni in suo possesso affidandole al proprio astrodroide da compagnia, una palla rotante che per motivi non del tutto chiari faceva sempre ridere tutto il cinema tranne me. Mentre Kylocal tortura Boh con gusto e professionalità, il droide palla se ne rotola in giro per il deserto fino a quando si imbatte in Rey, una ragazza che vive da sola e tira a campare smontando rottami di astronave e vendendoli in cambio di mezza porzione di pane verde ammuffito liofilizzato (o due porzioni di pane senza muffa, che però è meno saporito e nutriente). Rey è giovane, bella e sa fare tutto, monta e smonta astronavi, monta e smonta gente a bastonate, guida le astronavi, parla con i droidi in droidese, insomma è la tipica ragazza cresciuta da sola nel deserto in un mondo ostile. Nel frattempo, Boh riesce a scappare dalle grinfie di Kylocal grazie all’aiuto di FN-2187, uno stormtropper che alla sua prima battaglia si ritrova con una bella macchia sulla divisa imperiale (due macchie se contiamo quella di sangue sul casco...). Lo scopo di FN-2187 è semplicemente disertare, cambiarsi le mutande e tornare a casa per chiedere ai genitori perché diavolo l’abbiano battezzato come la vecchia panda di zia Adelina. Boh, invece, lo convince a risolvere il problema cambiando il nome in Findus ed a tornare su Jakku per riprendersi il droide, trovare Liuk, salvare la galassia e tutto quel genere di cose. Su Jakku, non ci vuole molto perché Findus in effetti si incontri e si scontri con Rey ed il droide, ma l’atmosfera si fa improvvisamente calda a causa di un bombardamento a tappeto dei caccia imperiali. Una settimana difficile, per gli onesti abitanti di Jakku. Findus e Rey decidono di fuggire sul primo pezzo di ferraglia che trovano casualmente parcheggiato nel deserto con il portellone aperto e le chiavi nel cruscotto, che guarda caso è il Millenium Falcon. Dopo un inseguimento mozzafiato, i due riescono a seminare gli inseguitori e lasciare il pianeta, ma vengono immediatamente catturati da Han Solo e Ciubecca che stavano casualmente passando da quelle parti. Se a questo punto cominciate ad avere l’impressione che in questo film avvengano veramente troppi incontri casuali, vi ricordo che ad un certo punto, nel vostro film preferito della saga, un certo Liuk Skaiwokke atterra in un punto a caso di un pianeta grandissimo e si ritrova proprio di fronte alla capanna del pupazzo verde che stava cercando. In altre parole, è la Forza - ed è esattamente in questo modo che funziona.

Han Solo fa presto amicizia con i due giovani scavezzacollo e li prende sotto la propria protezione, mentre con il Millenium Falcon fanno rotta verso un pianeta che pare il Guatemala dove una sua amica gestisce un bar, perché come diciamo da queste parti in caso di dubbio o di pericolo è sempre meglio andarsi a bere un bicchiere prima di ragionare. L’amica di Han, il cui nome francamente non ho capito e non mi interessa, è una tartarughina carinissima che sembra figlia di Yoda e Squirtle dei Pokemon, blatera delizioso nonsense sulla Forza e non combina molto altro. A questo punto Findus, frustrato nelle sue speranze di fidanzarsi subito con Rey e ritirarsi a vivere in campagna con molti figli, droidi ed animali, decide di levare le tende ed andare sull’Orlo Esterno a fare non si sa bene cosa, visto che letteralmente le uniche cose che sa fare nella vita è pulire cessi e sparare alla gente. Lo stress si fa sentire anche per Rey, che inizia a sentire le voci, scende nella cantina del bar e trova in una cassettina di legno nientepopodimeno che la spada laser originale di Liuk Skaiwokke, già di suo padre prima di lui, che come certo ricorderete era stata tagliata insieme al resto del suo braccio nel corso della più commovente puntata di "Carramba che sorpresa!" degli anni Ottanta. Come sia finita nelle mani della Tartaruga, non si sa. Perché fosse in una cassetta di legno aperta, in una stanza senza porta, peggio custodita di una bottiglia di Jagermaister già aperta, non si sa. Appena la tocca, però, Rey soffre di una serie di allucinazioni spaventose come peraltro chiunque abbia mai bevuto Jagermaister in un bar guatemalteco e reagisce saggiamente fuggendo da sola nella foresta. In quel momento, tanto per cambiare, l’impero colpisce ancora e butta giù a laserate il bar con tutti gli avventori dentro. Della Tartarughina e dei suoi clienti, compresa una deliziosa ed originalissima orchestrina aliena, da questo momento in poi non si saprà più nulla. Findus torna velocemente sui propri passi e si ricongiunge con Han Solo, ma non riescono a salvare Rey che dopo un breve ed impari scontro viene catturato dal malvagio Kylocal. Qui c’è il toccante momento dell’incontro tra Han e la principessa il generale Leia, che s’erano lasciati tempo prima. Roba commovente, se vi piace la geriatria.

(Da apprezzare che quando Kylocal scopre che tra i ribelli che sta inseguendo c’è anche una ragazza, il temibile Sith reagisce con la compostezza tipica di uno studente di ingegneria al primo anno di università. Oh, ma clonarsi qualche ragazza nelle truppe imperiali?)

L’Impero 2.0, che ora è guidato da un gigantesco ologramma di Voldemort, sperimenta intanto la sua nuova superarma. Si tratta di un intero pianeta attrezzato come una gigantesca Morte Nera, solo che stavolta può distruggere interi sistemi solari a tipo un miliardo di miliardi di chilometri di distanza e funziona interamente ad energia solare, perché l’Impero sarà anche un malvagio regime di morte ma almeno ci tiene al rispetto dell’ambiente. Con il primo colpo, fanno saltare il pianeta dove ha sede il Senato galattico, una mossa terribilmente populista che attira subito le simpatie della fascia debole dell’elettorato e di cui in tutta franchezza nessuno si duole eccessivamente per il resto del film. Con il secondo colpo, invece, vorrebbero far fuori la principessa Leia e quindi la cosa inizia a farsi preoccupante, per cui i ribelli decidono di affidare una missione di salvataggio e sabotaggio ai propri uomini migliori: Han, Ciube e Findus ovvero un vecchio di settant’anni, un tappeto ambulante di età indefinita ed un disertore in fregola. Io ora non vorrei spacciarmi per un esperto militare, ma credo che al posto loro comincerei ad addestrare delle truppe d’assalto per questo genere di evenienze, visto anche che si presentano piuttosto spesso. Nel frattempo, tra Rey e Kylocal iniziano i primi bisticci su quale sia il lato più forte della Forza. In un momento di grande pathos il cattivissimo Kylocal, comandante delle truppe imperiali, si toglie lo spaventoso casco nero e con nostra grande sorpresa veniamo a sapere che si tratta soltanto di un adolescente brufoloso con il naso grosso quanto i suoi problemi di autostima. Inoltre, è figlio di Han Solo e della principessa Leia, ha tradito Liuk e ha una vocina, una vocina che la Forza lo perdoni. Rey lo percula tantissimo per tutto ciò e lui se ne scappa a piagnucolare da Lord Voldemort, mentre la ragazza in quattro e quattr’otto riesce a liberarsi. La reazione di Kylocal quando viene a saperlo è sicuramente uno dei momenti più simpatici della saga, persino meglio di quella volta che Jar Jar ha pestato - ohohohohoh non fatemici ripensare - quella caccona su Tatooine. Che poi non si capisce perché in questo film tutti i personaggi debbano essere dei ragazzini, passi per Rey, passi per Findus, ma Kylocal? E il comandante della base imperiale? L’intera maledetta plancia di comando della base è operata da ragazzini con la voce stridula, tutti insieme non arrivano all’età del Gran Moff Tarkin.

Qui inizia la strepitosa sequenza finale, che vede da un lato Han Solo e Findus infiltrarsi nella base nemica, disattivare i cazzabubboli e ritrovare Rey, dall’altra i caccia della Resistenza cercare di distruggere il quisillis che impedisce alla superarma di esplodersi da sola. Mentre i nostri eroi piazzano bombine dappertutto, Han Solo vede passare Kylocal e decide di fare il buon padre di famiglia e provare a riportarlo presso il Lato Chiaro della Forza. Pessima idea. Commovente il suo discorso del tipo "Torna a casa, Ben." (Pare che il vero nome di Kylocal sia Ben, oppure Han Solo è veramente un pessimo padre.)

"Torna a casa, Ben."
"No, il figlio che conoscevi è morto, tu mi hai abbandonato, tutti i soliti cliché."
"Torna a casa, oggi è giovedì, tua madre ha fatto gli gnocchi con il ragù."
"Scherzi? Pensavo fosse mercoledì. Mi cambio e arrivo."

Ma a quel punto, con orrore di tutte le casalinghe di mezz’età e di Pornorambo, Kylocal cambia idea e con abile mossa trafigge Han Solo uccidendolo con la spada laser, lasciandoci con il dubbio che Leia cucini veramente male o, come tutti sospettano, che il Lato Oscuro sia intrisecamente vegano. Anche Rey e Findus ci rimangono veramente male, fanno esplodere in fretta la base dell’Impero e cominciano a prendere a mazzate Kylocal in mezzo al bosco innevato, tagliando con la spada laser un sacco di alberi perché in fondo si è capito che a loro no, dell’ambiente non intressa proprio niente. L’entusiasmo, però, non è tutto quando si combatte contro il Lato Oscuro ed il povero Findus, che brandisce la spada laser come una specie di mazza da baseball luccicante, viene rapidamente messo al tappeto. Rey invece fa appello a tutta la sua conoscenza della Forza (che a questo punto della saga è teoricamente pari a una pacca sulle spalle da parte della Tartarughina, ma vabbeh) e dopo un epico combattimento riesce a sconfiggere Kylocal e a fuggire.

Ritornati al covo della Resistenza, per un motivo apparentemente inspiegabile R2-D2 decide infine di rivelare a sua volta di avere un pezzo della mappa per ritrovare Liuk, che combinato con le informazioni del droide palla mostra finalmente l’ubicazione del nascondiglio del vecchio cavaliere Jedi: la Sardegna. Nessuno gliel’aveva mai chiesto al droide? Aspettava che morisse Han Solo? Sapeva che stava per finire il film? Mistero. Ancora una volta, comunque, i ribelli non trovano altri da mandare se non Rey, perché a chi affidare la conclusione di una missione importantissima in corso da anni se non alla stagista appena assunta? Mi pare una scelta ovvia. Commovente l’incontro finale tra Liuk, con la panza, le occhiaie e l’espressione di un barbone in crisi depressiva, e la giovane promessa del Lato Chiaro. Il Jedi sembra uno che si è ritirato su un’isola deserta con uno scatolone pieno di sigarette ma si è dimenticato i fiammiferi. Quando lei, senza dire una parola, gli porge la vecchia spada laser...

...niente, parte la sigla e ce ne restiamo appesi all’amo in attesa del prossimo episodio, con il rigagnolo di bava che ormai aveva formato una pozzanghera sotto il sedile. Giudizio finale: da 1 a 10, "Spada laser nella neve", che sta tra 10 e "Io sono tuo padre".




17/11
2015

Se non ci credi abbastanza

Sono sicuro che non siamo neppure in pochi, quelli che di fronte ad una tragedia pubblica stanno male ma non si riversano subito a vomitare odio, non si divertono - perché in fondo è divertente, dai, ammettetelo - a scribacchiare o linkare teorie del complotto ed ipotesi geopolitiche con la profondità di pensiero di un telefilm, non si lanciano ad invocare crociate né altre soluzioni tanto semplici quando inutili, soddisfacenti solo per chi le chiede perché consentono di togliersi il pensiero a costo zero. Sono sicuro che non siamo affatto in pochi, quelli che si interrogano, leggono, rileggono, contestano, cercano di capire, si preoccupano senza essere terrorizzati, cercano di separare il grano dalla pula. Magari non capiamo, magari non siamo più intelligenti o più furbi degli altri, magari è per questo che viviamo di dubbi invece di certezze da cinquantamila like.

Io di certezze ne ho poche, di assoluta nessuna. So che qualche volta provo paura, qualche volta odio, nei confronti di chi mette le bombe e di chi sgancia le bombe, di chi usa il fucile e di chi vende il fucile. So che non vorrei vivere in un mondo senza musica, senza sorrisi, senza capelli al vento in una mattina d’estate, non vorrei vivere in un mondo con i soldati per strada e le bombe al mercato, senza acqua e cibo, senza medicinali e senza libri, senza baklava e senza vino, so che non vorrei vivere in un mondo in cui posso uscire di casa solo per andare a lavorare, in un mondo dove tutto è pericoloso tranne ubbidire. So che ci stanno confezionando un mondo dove non mi piacerebbe vivere. So che stiamo bastonando il Medio Oriente da almeno quindici anni e viviamo in uno status quo di guerra permanente. So che, come ha scritto qualcuno, colonialismo, tirannia e terrorismo sono legati in una relazione simbiotica, in un ciclo in cui si passa da uno stato all’altro per poi ricominciare e credo anche che non si possa eliminare uno di questi fattori senza cancellare anche gli altri due. So che esistono musulmani moderati, musulmani radicali ed estremismi di varia natura e misura, per non parlare del miliardo e rotti di musulmani che probabilmente si definiscono tali solo perché sono nati in una certa regione e famiglia in un certo contesto storico, come i cattolici da noi che vanno a messa solo a natale o solo per bersi il bianchetto dopo la liturgia. So che esistono o sono esistiti terroristi, dittatori, assassini di tutte le religioni e di nessuna. So che la definizione di terrorista è più complessa di quel che sembra, che i nostri terroristi sono i partigiani degli altri, che persino un terrorista non è solo un terrorista ma per forza di cose anche qualcos’altro tra cui purtroppo un essere umano. So che nelle terre controllate dallo Stato Islamico c’è gente che ci vive più o meno costretta, che lavora, che si ammala, so che c’è una qualche forma di governo e so che per qualcuno quella forma di governo non è neanche peggio di quella che avevano prima. So che non ci si può aspettare niente di buono da chi crede in qualcosa con troppa fede e troppo poca ragione, che sia l’Islam, il cattolicesimo, il buddismo, il comunismo, il fascismo, il veganesimo, il kung fu, twilight o il calcio. So che qualcuno penserà che non tutte queste fedi incitano alla violenza, ma io credo che il problema sia la quantità più che la qualità. Tutte le fedi sono buone, se non tenti di imporla ad altri perché sei convinto sia la cosa migliore per tutti. Tutte le fedi sono innocue, se non ci credi abbastanza. Credo sia umano ed inevitabile credere in qualcosa, crederci con forza, difendere quello in cui crediamo. Credo sia doveroso ricordare che non è necessario credere in un Dio, appartenere ad una religione, sottomettere la ragione ad una fede quale che sia, fosse anche la fede nella scienza e nella ragione stessa. Dubitare, sempre. Gli estremisti odiano il dubbio, i fedeli odiano il dubbio, i terroristi non hanno dubbi. Dubitare, sempre, ma fare qualcosa fintanto che si dubita.




30/10
2015

Non ve ne siete neanche accorti

Per qualche giorno questo bloggo è stato offline, a causa di uno spiacevole inconveniente tecnico: il mio provider si era distratto. Questi giorni di oscurantismo forzato e la remota possibilità che non fosse più possibile rinnovare il dominio mi hanno spinto ad interrogarmi su quanto io fossi ancora affezionato a questo posto dopo tanti anni, è la risposta è stata: piuttosto poco. Le persone per cui avevo iniziato a scrivere ormai sono quasi tutte scomparse, il tempo e la voglia sono sempre meno. Soprattutto, scarseggia il materiale di cui scrivere in un momento in cui le opinioni sono diventate una merce decisamente inflazionata mentre i fatti non interessano più a nessuno.

Poche settimane fa, ad esempio, un ospedale di Medici Senza Frontiere è stato bombardato a Kunduz, in Afghanistan. Sono morte almeno 22 persone: 12 operatori dell’organizzazione e dieci pazienti, tra i quali 3 bambini. Dopo meno di una settimana già non ne parlava più nessuno, la notizia era pressoché sparita dai giornali ed è passata inosservata in tv. Tutti discutono delle ultime discutibili prodezze di Valentino Rossi, discettano di vaccinazioni, carni rosse e teoria gender.

Molti anni fa, si era diffusa questa convinzione che fosse importante "consapevolizzare" le persone. Credo che si fosse più o meno nel periodo di grande diffusione di Internet: di punto in bianco avevamo a disposizione un sacco di informazioni e volevamo condividerle, fare in modo che più gente possibile sapesse. Gli intrighi della Monsanto, la rete di aziende controllate dalla Nestlè, i contadini indiani e gli zapatisti in Messico. Eravamo convinti, forse, che essere consapevoli di un problema fosse il primo passo per risolverlo. Sbagliavamo, evidentemente. Tutta quella consapevolezza non era un primo passo, non ha portato a niente. Oggi siamo consapevoli di tutti i problemi. Sappiamo dove e come vengono estratti i metalli rari dei nostri smartphone, che sostanze vengono spruzzate su frutta e verdura per farle apparire più belle nei banchi del supermercato, come vengono allevati e uccisi gli animali che mangiamo, quanto vengono pagati gli operai che cuciono le nostre scarpe ed i nostri vestiti, quanto e da chi sono corrotti i nostri governanti. Cosa è cancerogeno e cosa no. Non ci interessa, scegliamo di far finta di non sapere, di pensare ad altro. Ci raccontiamo che tutti mentono e che la verità è ormai impossibile da conoscere. Aiutati dai social network, ci rifugiamo in microcosmi di persone che percepiamo simili e selezioniamo accuratamente solo quello che vogliamo sentirci dire. Il sano relativismo culturale è stato soppiantato da un’atomizzazione selvaggia del pensiero, in cui l’opinione anonima di uno stolto qualsiasi ha lo stesso valore di una ricerca scientifica, in cui qualunque cosa contraddica la mia esperienza diretta e quindi i preconcetti ed i filtri con cui interpreto la mia vita diventa una bugia, una congiura contro di me. Sono giunto alla conclusione che consapevolizzare, quindi, non serva a nulla. Le informazioni sono diventate inutili, i dati di fatto irrilevanti, non producono più risultati concreti e modifiche alla realtà sensibile ma solo un soffice effetto sedativo. L’universo simbolico non ha bisogno di altre parole, se non per il loro valore estetico.

Ciononostante, poiché sono un essere contraddittorio e problematico, sono ancora qui e non intendo andarmene. Se non altro per me stesso, per il piacere di battere le dita su questi tasti, di sentirmi frizzare i polpastrelli mentre scrivo, e per quei due o tre stimatissimi lettori che ancora bazzicano da queste parti.




30/9
2015

Abbasso il duce, abbasso il re

E’ passato un altro anno, un altro compleanno. Da piccolo li attendevo con trepidazione, aspettavo Settembre per tutto l’anno e poi per tutto Settembre aspettavo il trenta. Ora, non riesco a ricordare perché tanto entusiasmo. Ora, la cosa mi sembra piuttosto seccante, anche se non mi sono ancora stancato di invecchiare. Quest’anno è stato piuttosto produttivo, dall’ultimo trentasettembre ad oggi si potrebbe dire che la mia vita è cambiata. Che espressione buffa: la mia vita è cambiata. Si usa dirlo per le cose più banali come per le grandi tragedie o avventure. Prova questo nuovo telefono, ti cambierà la vita. Accetta la costruzione di questa nuova autostrada, ti cambierà la vita. Sposati, ti cambierà la vita. Muori, ti cambierà la vita. In realtà la vita continua a cambiare, e a cambiarci, anche se non facciamo niente, come gli scogli erosi lentamente dal mare. Durante l’ultimo anno, tuttavia, sono stato almeno un po’ più mobile degli scogli sul mare, ho portato a termine la prima parte di un progetto molto importante ed ora che quel progetto cammina sulle sue gambe sono pronto per dedicarmi anche a qualcos’altro. Soddisfatto, mai. Più felice, a volte. Nel complesso, credo di essere peggiorato con gli anni, ma non quanto l’ambiente che mi circonda. Cerco di ridere di più, ed ho delle buone scuse per farlo. E’ stato un buon anno. Non tutto va come vorrei che andasse, ed ho sostituito le mie allucinazioni cyberpunk con le tensioni cervicali piccoloborghesi che ho sempre disprezzato. Amo, amo moltissimo, odio con parsimonia. Dormo e bevo troppo poco, leggo troppo poco, faccio troppo poco tutte le cose che mi piacciono, e questa è la vera tragedia. Soddisfatto, mai. E di questa insoddisfazione farò il mio unico patrimonio.




16/9
2015

Caso o diritto

Come tutti gli uomini alla soglia della mezz’età, di quando in quando amo mettermi alla prova con uno sport estremo. C’è chi si butta col parapendio, chi fa kite surfing nei laghetti infestati dai piraña, io leggo gli articoli di cronaca dei quotidiani locali.

Qualche tempo fa, in una di queste mie temerarie incursioni nell’orrido, ho letto l’opinione di una ragazza di origine straniera riguardo la questione dei rifugiati. "Essere nati in un Paese ricco è un caso, un colpo di fortuna" diceva "così come è un caso nascere in un Paese povero o colpito dalla guerra. Chi è stato più fortunato dovrebbe quindi aiutare chi, senza colpa, si trova in una situazione di grande difficoltà."

Per quanto riguarda la prima frase, sono assolutamente d’accordo. Da un punto di vista ontologico nascere in Italia, Mauritania o su Proxima Centauri non è un nostro merito ma un puro accidente del caso come nascere biondi, alti, maschi ed in buona salute. Queste caratteristiche casuali o innate influenzano drasticamente le nostre possibilità di avere una vita soddisfacente o anche una vita tout-court, e questo prima ancora che noi siamo in grado di camminare, mangiare le pappine senza sbrodolare e dimostrare di possedere un libero arbitrio. Essere nati in un Paese ricco, avere un tetto sopra la testa e ricevere un’istruzione di base è già un grande privilegio e di solito ci capita in sorte senza alcun merito. Per quanto riguarda la seconda frase, ovvero che in virtù di questo privilegio noi saremmo moralmente obbligati ad aiutare i più sfortunati, si tratta ovviamente di una prescrizione etica che ciascuno può accettare oppure no. Se sono un privilegiato per caso, non ne ho nessun merito ma neppure nessuna colpa da espiare, ho vinto la lotteria ma avevo le stesse possibilità di chiunque altro. Ne riparliamo alla prossima reincarnazione, quando io sarò un’ameba nel brodo primordiale di Saturno e tu una fotomodella cocainomane di Cefalù. Quindi la ragazza intervistata aveva ragione sulla premessa, ma a mio avviso ne traeva una conclusione illogica e fortemente influenzata dalle proprie convinzioni etiche o religiose. Io magari giungo alla stessa conclusione per ragioni etiche anche molto diverse, ma capisco che lo stesso non sia valido per tutti.

Leggendo anche i commenti, però, sono stato colpito dal ragionamento di un irritato lettore, il quale ragionava più o meno così: "Ma quale privilegio? Ma quale colpo di fortuna? I nostri padri ed i nostri nonni sono MORTI per garantirci il benessere di cui godiamo, pertanto il nostro tenore di vita è un diritto che godiamo in virtù del loro sacrificio!"
Eh no, ciccio. Come certi buzzurri ripetono spesso, non esistono diritti senza doveri. I tuoi genitori ed i tuoi avi, come certamente già sai, non si sono infatti limitati a lavorare duro ed immolarsi sul Piave, ma hanno anche invaso terre straniere, stuprato fanciulle, depredato risorse, sostenuto dittatori e filibustieri. Magari volontariamente, forse costretti, ma l’hanno fatto. Il benessere che ti hanno lasciato in eredità è dovuto anche a questo, perciò se ritieni che la tua vita non sia il risultato casuale di mulinelli di geni scompigliati dal vento cosmico ma il preciso effetto delle scelte e delle azioni razionali dei tuoi avi, se credi che quelle azioni, quelle scelte compiute da altri, diano a te dei diritti speciali pur non avendone nessun merito personale, allora sei destinato anche a pagarne il conto. Quanto è salato questo conto, quant’è costata la situazione di benessere generale che ti ha permesso di nascere e diventare quello che sei? E’ dura da calcolare ma, a spanne, direi che ti conviene convertirti alla teoria del caos.




25/8
2015

Tornare a lavorare

Amici, italiani concittadini, ormai vi capisco a stento. Vi ho visti sfilare elegantemente per le strade di Cortina, arrivare comodamente seduti in seggiovia fin sulle più alte vette delle Dolomiti e lì guardarvi attorno stupiti ed ammirati, senza trattenere gridolini di ammirazione, farvi quattrocento foto con il cellulare appeso ad una canna da pesca e ridiscendere incespicando per sentieri che sembrano ormai autostrade, vi ho visti ancheggiare abbronzati lungo le spiagge ghiaiose del Conero o sulla sabbia veneta, sfoggiando tatuaggi e borsette alla moda, stendervi a rosolare sotto il sole d’Agosto per ore senza mai entrare in mare, scattarvi altre quattrocento foto e poi tornare a casa, vi ho visti arrancare tra gli asciugamani distesi con borse di nylon piene di pancarré e carciofini sottolio da consumare in spiaggia, vi ho sentiti commentare accaniti - ancora! - le prodezze della prima partita di calcio del campionato come parlaste di cose serie, vi ho visti con lo sguardo chino sui telefoni a raccontare al mondo quanto vi steste divertendo, ho sentito i vostri insulti ai rifugiati e ai migranti, ai venditori ambulanti che si affannano a proporvi altri accessori inutili, vi ho visti bambini accalcarvi con giocattoli costosi attorno alle postazioni wifi, imprecando contro la lentezza della connessione, vi ho visti sorridere depressi, pallidi, ingrassati e stanchi. Forse è ora di tornare a camminare, è ora di tornare a nuotare, a leggere, a scrivere, a battere a macchina, a strappare le erbacce, a parlare a voce alta, è ora di schiarirsi le idee. Forse è ora di tornare a lavorare.




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