Nel Triste Borgo Natio è vietato regalare i propri rifiuti, pena una sanzione di 100 euros.
Sorprendente, vero? Non è mica per caso che lo chiamo "Triste".

Il fatto è questo: per riequilibrare il karma del mortifero inceneritore, sono presenti in giro per il borgo delle graziose ecostazioni dove portare tutti quei rifiuti che non si può o non si riesce a far entrare nei bidoncini dell’umido, nei sacchetti del mistomare o nei cassonetti del solo il cazzo sa cosa. Quando dico "ecostazione" non dovete pensare ad una discarica, ma ad un centro di raccolta pulito come la lobby di una banca svizzera, con tanti container differenziati per colore e contenuto: in uno ci vanno i vetri, in un altro i legni, nel terzo il materiale edile, nel quarto gli operai usati ed in uno degli ultimi tutto quello che non ci stava dalle altre parti.
Dato che viviamo pur sempre in una società del consumo con molti scarti, alcuni intraprendenti stranieri si dovevano essere accorti che assieme all’immondizia la gente buttava via un sacco di cose che potevano essere riutilizzabili, o riparabili: vecchi televisori, mobilio, vestiti usati, scarpe, specchi, ciarpame assortito. Si erano organizzati, in tre-quattro, eh, mica un’orda, per avvicinare ogni auto che si fermava o attendeva paziente in coda, ispezionandone il carico e cercando di accaparrarsi eventuali reperti vagamente utili, che accatastavano da una parte e portavano via a fine giornata. Qualcuno si sarà anche chiesto se magari la rivendessero, la roba che recuperavano a gratis. Ma era (è) comunque monnezza, oggetti che non servivano più ai loro proprietari e che stavani per essere buttati via, e poi non è che questi ti saltassero sul cofano o ti minacciassero con il coltello per avere il tuo vecchio tavolino del soggiorno, alla peggio ti facevano perdere trenta secondi con le loro inquisizioni assillanti, allungando il collo per spiare negli scatoloni e qualche volta le mani.
Non dubito che qualcuno potesse trovarli fastidiosi, qualcuno deve persino aver pensato che il loro spirito d’iniziativa rendesse quegli angoli di borgo pallidamente simili alla periferia di Bombay, e non aiutava certo il fatto che la maggior parte di loro avesse una pigmentazione della pelle piuttosto scura. E poi, in fin dei conti, non producevano nulla e si appropriavano di qualcosa che non avevano comprato, per non parlare del fatto che ai borgonativi in genere non piace che uno sconosciuto rivolga loro la parola. Di conseguenza, un bel giorno esce questa ordinanza comunale e bang! Spariti di colpo i molestatori dalle ecostazioni, multe a chi chiede e a chi consegna i rifiuti, e più nessuno a salvare la monnezza dal proprio ineludibile destino.
Può sembrare paradossale, con tutti i discorsi che si fanno sulla necessità di ridurre la produzione di rifiuti, riciclare e riutilizzare, può sembrare un controsenso irragionevole impedire che qualcuno recuperi gli scarti del consumo e rimandi il momento della loro distruzione, ma suppongo risponda ad una qualche logica profonda difficile da comprendere per chi vive lontano da queste aride lande, un problema più di senso del possesso che di ordine pubblico, del tipo che, uhmpf, i nostri rifiuti sono nostri, esclusivamente nostri, li abbiamo fatti noi, e guai a chi ce li tocca.
Note estemporanee di zio Lusky:
State alla larga dagli anarchici informali, gli anarchici per bene si riconoscono perché danno sempre del lei e dicono buongiorno, buonasera, prego, si accomodi, e grazie.
Il titolo che avevo in mente, ma non ci stava, era:
Al cinema con KarmaChimico: Milk, di Gus Van Sant, con Sean Penn ed altri tizi che ti piacerebbe non trovare attraenti
Di cosa parli "Milk" ormai lo sanno tutti, è la storia di due lattai omosessuali nella San Francisco degli anni ’70. Epica la battuta "Ma questo non è latte!", con la quale vi ho appena fatto vomitare. Ops, scusate, ho fatto confusione con una barzelletta del ’92, errore mio. "Milk" in realtà è il nome del protagonista, tale Harvey Milk che negli anni ’70 a San Francisco ha vinto l’oscar per la migliore interpretazione di Sean Penn (quando gli oscar si consegnavano a San Francisco, c’erano categorie strane). Il film io l’ho visto un paio di settimane fa e m’è piaciuto assai, anche se di Van Sant preferisco sempre quello in cui nascondeva una telecamera sotto il cappello di un tizio e poi lo mandava a scuola a sterminare tutti i suoi amici (tratto da una storia vera).
(Van Sant fa scherzi del genere)
Di seguito invece la trama della versione censurata di Milk, quella che la Rai in un lontano futuro trasmetterà in seconda serata, preceduta dal disclaimer "Attenzione! Questo film potrebbe farvi provare il pruriginoso desiderio di abbassare lo sguardo sulla persona accanto a voi in spogliatoio. Non guardatelo, lo trasmettiamo solo per impedire ad altri di farlo."
Milk: the vatican edition
Harvey Milk ed un suo amico si trasferiscono a San Francisco per aprire un negozio di sviluppo fotografico. A causa del loro essere forestieri, gli abitanti del quartiere inizialmente li accolgono con una certa ostilità, ma in breve tempo attorno al loro negozio si raccoglie un nutrito gruppo di fotoamatori provenienti da tutto il paese. Milk decide allora di impegnarsi in prima persona contro la violenza e le discriminazioni subite da lui e dai suoi amici riuscendo infine, nonostante l’avversione della maggioranza non-fotografa, la titubanza di una parte dello stesso ambiente fotoamatoriale e le numerose sconfitte che si succedono negli anni, a farsi eleggere come consigliere comunale, diventando la prima persona manifestatamente appassionata di fotografia a ricoprire una carica pubblica negli Stati Uniti e ad ottenere il riconoscimento di importanti diritti civili. Alla fine, purtroppo, verrà comunque ucciso da un ritrattista represso a causa del suo terribile taglio di capelli.
Durata: 42’.
Il paese è ancora in crisi, la democrazia ancora in pericolo, lo spettro dell’olocausto nucleare incombe su di noi, ma non c’è ragione di preoccuparsi: ieri è uscita la beta pubblica di Safari 4 per windows e mac, un nuovo giochino con cui tenersi distratti.
Sempre in prima linea nello sperimentare le novità più inutili, anch’io ho messo da parte Opera* e sto provando questo nuovo browser. La novità più eclatante, dicono, sta sotto il cofano e riguarda il coso, lì, quello che fa cosare le pagine web, che le cosa più velocemente. Ma dato che hanno ben pensato di metterla sotto il cofano, ’sta cosa, a noi che ci importa? Lasciamocela. Non apro il cofano della mia auto dal 2006, figuriamoci quello del browser. Di primo acchito invece si nota che Safari 4 ha:
- la paginona con i siti preferiti (tipo Opera)
- le cartelline (tab) in cima alla pagina invece che sotto la barra dei menu (tipo Chrome)
- la gestione dei preferiti e della cronologia con le miniature (come iTunes)
- la ricerca intelligentissima nella cronologia (e qua non ce n’è)
- un’interfaccia smilza
Più altre centoquaranta novità probabilmente irrilevanti, ma che non ho ancora avuto tempo/voglia di guardare. Nel complesso direi che Safari è molto migliorato rispetto alla versione precedente, ma non saprei se è abbastanza per farmelo usare regolarmente. Prima di tutto mancano ancora le mouse gestures di Opera, alle quali ormai mi sono abituato e che trovo indispensabili**. Poi per sincronizzare i preferiti tra due computer diversi serve un costoso abbonamento, o un plug-in, e non un abbonamento gratuito come con Opera. Poi non c’è la bacchetta magica per salvare le password, anche se immagino che uno possa trovare strumenti alternativi. Poi non c’è il programma di posta integrato, che io non uso mai ma Amormio sì. E poi - ultimo ma proprio ultimo - quella barra degli strumenti grigia che non si può modificare in nessun modo agevole, che tristezza. Però mi piacciono molto l’interfaccia senza tanti fronzoli, la gestione dei preferiti, la pagina di ingresso che si aggiorna da sola, la ricerca intelligente e qualche altra menatina. Insomma, è il browser che più si avvicina alla vetta di Opera e l’unico che lo superi in qualcosa, potrei persino pensare di usarlo per qualche tempo. Giusto per cambiare un po’, nell’attesa di Opera X.
* Per quanto tempo, è tutto da vedere.
** "Indispensabili" nel senso internettiano del termine. Non nel senso "cacciatore-raccoglitore".

[Uno dei motivi per cui odio questa idea delle ronde: possono generarsi spiacevoli equivoci.]
Ora vorreste lasciare le strade in appalto ai fasciopadagni da combattimento, nell’illusione che vi liberino di spaccini e disperati, facendo pure finta che queste ronde possano davvero essere apartitiche, apolitiche (in Itaglia!) e disarmate. Insomma, non vi bastava avere una telecamera puntata verso il vostro culo ad ogni angolo di strada, ci tenete proprio ad avere qualcuno che vi controlli appena mettete il naso fuori di casa. Abdicate, con gioia, al vostro diritto di muovervi liberamente. E potete ben dire che quando il mondo era un posto migliore voi uscivate più spesso, ma potrebbe essere vero anche il contrario: quando uscivate più spesso, il mondo era un posto migliore.
Come senz’altro anche i più sordi di voi avranno sentito, Sabato il PD ha eletto un nuovo segretario che dovrà traghettarli oltre lo scoglio delle elezioni europee, e poi darsi alla macchia il più velocemente possibile. Alcune parole di presentazione sul fortunato prescelto:
Alberto Franceschini nasce da qualche parte intorno alla fine degli anni ’40, cazzeggia fino al 1970 anno in cui partecipa alla fondazione delle Brigate Rosse assieme alla Cagol e a Curcio. Onde evitare il servizio militare, che avrebbe interferito senz’altro con le sue ambizioni rivoluzionarie, Franceschini è il primo brigatista a diventare ufficialmente latitante; va sottolineato però che mancano cifre esatte riguardo i latitanti che non ci tenevano a farlo sapere. Arrestato nel 1974 assieme a Curcio grazie ad un’infamata, Franceschini è anche l’unico capo delle BR che nessuno mai si sogna di far evadere, facendosi quindi 18 anni di buia sui sessanta e rotti ai quali era stato condannato per costituzione di bandarmata, sequestro, oltraggio, rivolta carceraria ed un totale di trecentododici multe per divieto di sosta. A causa del lungo periodo di solitudine e della sostanziale indifferenza dimostrata dal mondo sovversivo nei suoi confronti, Franceschini ha avuto modo di sviluppare e di esporre ripetutamente una sua machiavellica teoria secondo la quale le Brigate Rosse erano in realtà una specie di gruppo di auto-aiuto per marxisti depressi, almeno fino all’infiltrazione da parte di Mario Moretti il quale però era un agente della CIA supportato dal KGB con l’aiuto dei savi di Sion. O qualcosa del genere, comunque è una teoria così bella che ci hanno fatto un film.
Pur non condividendo alcune delle posizioni ideologiche e di prassi adottate dal Franceschini nel corso della sua vita politica, non posso che accogliere con piacevole stupore un così evidente segno di discontinuità rispetto alla precedente gestione del PD: finalmente hanno dimostrato di saper ascoltare le richieste della base di un maggior orientamento a sinistra, contraddicendo tutte le accuse che piovevano loro addosso da mesi. Figuratevi se avessero eletto un ex-democristiano!
E’ passato solo un anno dalla sciagurata dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, e questo narcostaterello non potrebbe essere più lontano dall’attenzione dei media e dell’opinione pubblica occidentale. Se lo sono filato così poco, l’anniversario, che pareva la sentenza del processo Mills. Eppure è strano, visto che il Kosovo è sembrato per un certo periodo il caput mundi attorno al quale ruotava la politica internazionale e si giocavano gli equilibri delle superpotenze e supercoalizioni. Quante parole si sono spese per appoggiare il sogno di libertà dei poveri kosovari, quante lacrime si sono versate sui cadaveri e sui profughi in fuga, quante bombe si sono sganciate sulle teste dei civili serbi per assicurare dignità a quel sogno ed asciugare quelle lacrime. Si mangiava Kosovo col pane a colazione, pranzo e cena nel ’99, noi che avevamo il pane e la tivù. E poi, un silenzio che dura ormai da dieci anni, interrotto ogni tanto da un colpo di singhiozzo in occasione di qualche scontro più cruento, subito messo a tacere per non suscitare dubbi inquietanti su chi stia attaccando chi. L’anno scorso, infine, una dichiarazione unilaterale di indipendenza accompagnata da qualche clamore, qualche timore e poi il nulla. Un silenzio di tomba.
In molti casi si dice: nessuna nuova buona nuova. E’ questo il caso? Dipende dai punti di vista. La maggior parte degli osservatori, non si a che distanza dai fatti, concordano che la situazione in Kosovo ora è abbastanza tranquilla, se si escludono bombe antiserbe come quelle del mese scorso, che comunque sono molto diminuite rispetto a qualche anno fa. E se si esclude che la parte nord di Mitrovica, abitata in prevalenza da serbi, è ancora isolata dal resto del Kosovo ed ha stabilito delle proprie autorità parallele che continuano a far riferimento al governo serbo. E se si ignora che la disoccupazione tra i giovani ha raggiunto il 75%, l’inflazione è altissima ed il potere di acquisto dei salari continua a scendere, mentre la gente comincia a chiedersi cosa ci ha poi guadagnato, da tutto sto po’ po’ di indipendenza. Inoltre pare che la missione dell’Unione Europea non solo non sia ancora riuscita a mettere piede a Mitrovica Nord, ma si stia inimicando anche gli albanesi andando a ficcare il naso nei loro traffici di droga ed armi, comunque più di quanto facesse in precedenza la missione ONU. Però è appena stato fondato un corpo di polizia kosovaro, nel quale possono entrare anche i serbi, e per l’anniversario dell’indipendenza sono state fatte un sacco di feste e parate. Insomma, a me che sono totalmente inesperto di politica internazionale il Kosovo sembra un barile di nitroglicerina in groppa ad un toro meccanico, ma gli osservatori dicono che la situazione è tranquilla ed il presidente-terrorista Thaci è ottimista.
Nel frattempo, la lista degli Stati che hanno ufficialmente riconosciuto il Kosovo sale a 55, grazie alle sempre preziose Maldive. Nell’elenco salta all’occhio - oltre a quella di grossi calibri come Russia, Cina ed India, di paesi dell’UE come Spagna, Slovacchia e Romania o ex-jugoslavi come la vicina Serbia e la Bosnia - l’assenza di quasi tutti i paesi musulmani e del Vaticano, che solitamente è celerissimo nel riconoscere i nuovi stati appena forgiati ed i governi sbarazzini - ma forse in questo caso non vogliono pestare i piedi a qualche pope. I serbi sperano addirittura che alcuni paesi arrivino a disconoscere il Kosovo dopo le prossime elezioni nazionali, ed hanno fatto ricorso alla Corte internazionale di giustizia affinché venga riconosciuta l’illegalità della secessione kosovara. Insomma, più tranquilli di così, onestamente, non si potrebbe, quindi direi che non c’è da preoccuparsi. Anche perché mi pare evidente che del Kosovo tanto amato ormai non interessi più un cazzo a nessuno, tanto meno a quanti dall’Italia hanno contribuito a "liberarlo" a mano armata.
Roma, 2009:
Doppio cordone di sicurezza 24 ore su 24: dentro e lungo il perimetro del campo. All’ingresso dei villaggi sarà istituito un presidio di sorveglianza composto da vigili o da guardie private, possibilmente con l’ausilio di telecamere, mentre lungo il perimetro saranno disposte forze dell’ordine e militari. Obbligo di identificare chiunque entri: sia i residenti, cui verrà rilasciato un tesserino con fotografia e dati anagrafici, sia i visitatori occasionali. Obbligo di annotare tutti gli ingressi su due registri appositi. I residenti nei campi dovranno seguire precise regole di condotta. Fra cui: divieto di ospitare persone non registrate o comunque non autorizzate; divieto di accendere fuochi fuori dalle aree appositamente attrezzate e comunque mai bruciare materiale inquinanti o pericolosi; divieto di accesso, parcheggio e transito di veicoli e motoveicoli; pagare le bollette dell’acqua, della corrente e del gas, nonché il canone mensile per l’utilizzo della piazzola di sosta e per i rifiuti; usare solo elettrodomestici a norma. Gli ospiti dei campi dovranno terminare entro le 22 ogni attività all’aperto che possa recare disturbo al riposo. Inizialmente era prevista entro le 22 anche l’uscita obbligatoria di parenti o visitatori occasionali, norma poi lasciata alla discrezione dei singoli comuni che potranno reintrodurla per motivi di sicurezza. Perderà il diritto a vivere nel campo chi viola i doveri e le regole di condotta sopra elencati; abbandona la struttura assegnata all’interno del villaggio per un periodo superiore a tre mesi, salvo non sia stato espressamente consentito; rifiuta più volte l’inserimento lavorativo; viene condannato, con sentenza definitiva, a oltre 2 anni di carcere per reati contro il patrimonio o la persona; tiene comportamenti che creano grave turbamento alla sicura e civile convivenza.
[Da qui e qui, per esempio.]
Una via di mezzo tra un campeggio particolarmente esclusivo ed il ghetto di Cracovia; del resto alle novità bisogna abituarsi a piccoli passi. Come al solito rispetto agli scopi dichiarati (sicurezza, sicurezza, SICUREZZA!) sfuggono un paio di dettagli. Ad esempio, dove li andrebbero a trovare tutti questi sbirri per sorvegliare 24 ore su 24 tutti i campi nomadi del Lazio? Immagino che presto o tardi la componente privata della sorveglianza, già prevista, farà la parte del leone - con tutti i rischi del caso. Ma soprattutto, se non possono entrare nei campi, dove andranno a finire i nomadi condannati in via definitiva o che creano turbamento alla civile convivenza? Mica possiamo farceli stare tutti in parlamento. Quindi si mette dentro e sotto sorveglianza chi non ha fatto niente e fuori, da qualche parte che nun se sa, chi ha commesso reati. Sticazzissimi.
[Sì, ora è ufficiale: a Roma servono requisiti più rigorosi per entrare in un campo nomadi che nel consiglio dei ministri. Direi che è una bella presa di coscienza.]
[Fossimo in vena di facile umorismo {non lo siamo} si potrebbe dire che è più difficile entrare in un campo che scendere in campo.]

Dai, Uolter, non fare così. Si scherzava, Uolter. Lo sappiamo che ce l’hai messa tutta.
E’ questo il problema.
Ecco, ci siamo giocati anche la Sardegna. Cioé, se la sono giocata loro, che io mica giocavo, e neanche ci volevo giocare, e comunque non è un gioco, però considerando che Soru non era male e qualsiasi scherano del Lestofante Capo invece è IL male e che una volta sono andato in ferie in Sardegna, posso tranquillamente sentire questo evento come una mia tragedia personale ed affermare di conseguenza che ce la siamo giocata. La Sardegna. Alle elezioni regionali, intendo, se non avete ancora letto il giornale. Se questa non è una dimostrazione della vocazione quasi sovrannaturale del PD alla sconfitta, allora non so che cos’è, ma certo se va avanti così ora delle Europee si potrebbero pentire di quella famosa soglia di sbarramento al 4%. Ed ora, più cemento per tutti.
Tra i più infami nell’ampio repertorio di delitti infami commessi dall’uomo, un posto d’onore molto particolare spetta allo stupro, il delitto impossibile da giustificare e per il quale è sempre vergognoso cercare delle attenuanti. Nessun avvocato o presentatore televisivo sarebbe disposto a giocarsi la carriera o a prendersi le uova in faccia schierandosi in difesa di uno stupratore, inventandosi macchinose ipotesi sullo svolgimento dei fatti o disquisendo sulle motivazioni, il contesto, lo stato psicologico dell’aggressore, la posizione delle macchie di sangue. Lo stupro è esente da quei giochini da talk show ai quali ci siamo abituati, ai plastici del luogo del delitto, ai testimoni a sorpresa che poi ritrattano, alle indiscrezioni pilotate. Abbiamo visto trasformare in spettacolo ogni rapimento, omicidio, ogni strage ed attentato, ogni guerra che ci siamo riusciti ad inventare, ma per lo stupro abbiamo ancora un certo pudore, dello stupro non si ride, non si discute, lo stupro è un crimine che va lavato con il sangue e dimenticato il prima possibile, lo stupro non si analizza, non va compreso ma punito. Un secondo di esitazione su questo punto, un solo battito di ciglia, e si é considerati complici dello stupratore, potenziali aggressori, l’odio per questa violenza accomuna tutti, destri e sinistri, uomini e donne, e non c’è garantismo o relativismo che tenga. Salvo che poi qualcuno che dissenta da questa monolitica condanna ci deve pur essere, dato che le donne continuano a venire violentate, qualche volta in strada e quasi sempre in famiglia, questa santa istituzione cellula fondamentale della nostra società, suscitando ogni volta il medesimo sdegno e lo stesso dolore.
Ma non è strano, mi chiedevo ieri mentre affettavo con la motosega tronconi di betulla, che con questa ributtante ondata di stupri che sta travolgendo il paese, come se ogni maschio eterosessuale non riuscisse più a tenersi l’uccello nei pantaloni, ancora ogni caso sia trattato come un episodio a sé stante, o al limite come un surrogato particolarmente ferace dell’emergenza sicurezza, del problema dell’immigrazione clandestina, ancora non si senta nessuno cercare di fare un passo indietro e dare uno sguardo alla dimensione sociale di questa violenza, ancora nessuno ragioni sulle motivazioni sociali e culturali, su quali siano le cause e su cosa si possa fare per rimuovere queste cause? Ogni stupro che viene sbattuto in prima pagina si risolve in una caccia al colpevole, ogni discussione si limita ad occuparsi di cosa fargli una volta preso, della punizione da infliggere, di come gestire la rabbia popolare. Si reprime, dando per scontato che non si possa impedire, ma non si cerca di risolvere. Valgono quel che valgono, queste considerazioni fatte con la sega elettrica, ma di solito se non ci si interroga su un problema o è perché si sa già la risposta, o perché non si vede nessun problema. In questo caso, forse non è che risolvere interessi più di tanto, in fondo la gestione del potere è ancora saldamente in mano maschile e lo stupro è una faccenda che coinvolge gli uomini solo indirettamente, offendendo il loro diritto esclusivo di possesso di una donna, la loro sovranità su una fidanzata o figlia o madre o sorella, umiliando la loro virilità e rinchiudendola in un bagagliaio, mettendo in discussione l’ancestrale dovere maschile di proteggere la famiglia dalle bestie feroci. Parlarne, è imbarazzante sia per la donna offesa che per l’uomo, potenziale aggressore o capofamiglia umiliato. E forse sotto sotto la violenza sessuale viene considerata un istinto insopprimibile dell’uomo, una specie di marchio di caino che portiamo impresso nel cromosoma y, e quando esplode non ci si può far nulla, e a chi capita capita, come una calamità naturale, un fulmine o un’inondazione, inutile farci tanti discorsi sopra. Pur essendoci millenni di civilizzazione a mediare il nostro rapporto con lo stupro, mi sembra che ogni volta si affronti l’argomento con la stessa logica dell’uomo delle caverne che per primo se ne deve essere occupato: la donna subisce, l’uomo si inferocisce, la comunità si solleva, il torto viene riparato sopprimendo l’aggressore e tutto torna alla normalità. Si parla molto della punizione, in realtà, e poco dello stupro, perché la vendetta è una faccenda da uomini, mentre lo stupro è un problema da donne, e quante volte ancora si sente dire che se la vanno a cercare, vestendosi o comportandosi in un certo modo, in un modo che di certo il loro uomo marito o padre non approva. Potrebbe essere proprio questo, forse, il motivo per cui più di tanto sullo stupro non si ragiona, dello stupro non se ne parla se non in termini di onore da vendicare, perché ragionarci porterebbe a smascherare questo primordiale teatrino in cui la donna è comunque trattata come un oggetto del dominio maschile, da ferire o da mettere sotto chiave, da vendere o da comprare, da tutelare o da proteggere ma solo nei termini stabiliti dall’uomo ed alle sue condizioni, da sedurre con una scatola di cioccolatini o, alla peggio, da vendicare con una clava.